Potrebbe essere mio figlio
News, Star, Gossip, Moda e Cultura: così viene definito il periodico Vanity fair. E forse, proprio per questo, sorprende l’articolo del Direttore, Luca Dini che leggiamo, partendo dalla foto di Aylan.
Questa foto non è «pornografia del dolore». Questa foto è mio figlio. Queste sono le scarpine con cui l’ho visto correre, questo è il mare dove ha imparato a nuotare, questa è la spiaggia su cui ha costruito castelli di sabbia.
Questo bambino potrebbe essere mio figlio.
**Questo bambino aveva 3 anni, si chiamava Aylan ed era curdo di Kobane, Siria, dove il regime di Assad ha seminato terrore per anni, e dove solo questa estate i subumani dell’Isis hanno massacrato centinaia di civili, donne e bambini compresi. Suo padre ha a Vancouver una sorella parrucchiera che sperava di raggiungere. La sorella aveva fatto una colletta tra amici e vicini per sponsorizzare la sua richiesta di visto come rifugiato. Ma la richiesta era stata respinta per complicazioni burocratiche. Per questo il padre aveva deciso di affrontare la traversata tra Bodrum, sulla costa turca, e l’isola greca di Kos. Il canotto si è rovesciato e Aylan è morto con il fratello di 5 anni e la madre. Unico superstite il padre.
È giusto pubblicare quella foto. Non solo ci aiuta a capire la terribile normalità di questi poveretti che tanta nostra politica chiama «clandestini», perché se li si incolpa di qualcosa – sono qui senza averne il diritto – è più facile chiudere gli occhi di fronte alle scene apocalittiche che ogni giorno ci arrivano da Turchia, Grecia, Bulgaria, Macedonia, Serbia, Ungheria, e su su lungo il corridoio della speranza verso l’agognato paradiso tedesco. Ci aiuta anche, quella foto, a capire che cosa spinge così tanti a rischiare la vita, e a chiederci se sia possibile fermarli, e come. Se un padre e una madre, dopo un passaggio in Turchia che non deve essere stato una vacanza, mettono in un canotto i loro bambini di 3 e 5 anni,...è perché quello da cui li vogliono salvare – la presenza quotidiana della morte, le violenze, la mancanza di futuro – è peggio di quello che rischiano.
E venendo alla fiumana che sbarca sulle nostre coste – africani non necessariamente di Paesi in guerra, magari neppure disperatamente poveri, magari semplicemente illusi di trovare un maggiore benessere che non troveranno mai, magari destinati a tornare indietro, dopo aver visto che per loro c’è solo lo schiavismo della raccolta dei pomodori – che cos’è che li muove? La speranza...
In Africa nessuno sa chi siano Renzi e la Boldrini, Salvini e la Meloni. Dell’Italia, al massimo, conoscono i nomi dei calciatori. Non vengono qui perchè sanno che siamo il Paese senza regole. Vengono qui perché sperano di andare altrove e di trovare qualcosa di meglio, perché l’Italia è l’approdo più vicino, e perché nessuno li ferma. E a meno di non sparare loro in mare, l’unico modo di fermarli era quello messo in pratica dai governi precedenti: pagare tangenti al regime libico perché li tenesse chiusi nei lager del deserto, dove la tortura e la schiavitù erano una realtà quotidiana assai peggiore delle scene che vediamo in questi giorni...
Sì, chi viene deve rispettare le regole, e dobbiamo fargliele rispettare.
No, non possiamo accogliere tutti da soli, perché gli standard di sicurezza e delle condizioni di vita – per noi e per loro – vanno assicurati, e solo una soluzione europea può garantire una distribuzione sensata basata sugli spazi e sulle risorse, ed è necessario fare anche scelte difficili, e attuare politiche dure. Qualcuno, forse molti, dovrà essere rispedito indietro.
Prima di dire «se ne tornino a casa loro», però, pensiamo a nostro nipote che va a Londra a fare il cameriere non perché qui non ha di che mangiare, ma perché è stufo di farsi mantenere da genitori e nonni.
E prima di dire «pensiamo ai nostri bambini», ricordiamo che l’essere nato a Voghera invece che a Kobane, l’andare nel mare della Grecia a fare le vacanze invece che a morire, non è un merito: è una fortuna.
La sfortuna non è una colpa. E, come il dolore, si rispetta.