letterina 20170108

Post-truth ovvero bufala

Monticelli

L’Oxford Dictionary, autorità indiscussa per la lingua inglese, l’ha scelta come parola dell’anno: post-truth, letteralmente post-verità. Una decisione forse anche un po’ provocatoria, collegata com’è ai due grandi eventi politici mondiali degli ultimi mesi: l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue e l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti. In entrambi i casi, infatti, tutti gli osservatori sono concordi nel ritenere – dati internet alla mano – che la diffusione “virale” di notizie false, anche palesemente false, ma plausibili almeno per un pubblico privo di strumenti critici adeguati ha condizionato in modo decisivo le opzioni degli elettori. Perché di questo si tratta quando si parla di post-verità.
La parola italiana di uso corrente che più le si avvicina è bufala, termine che contiene una giusta dose di irrisione per l’assurdità di certe invenzioni, che pure trovano largo credito sul web, e che però non dà la misura della gravità del fenomeno. Con il potere della parola, del resto, bisogna andare cauti.
Una studiosa molto autorevole come Patrizia Violi, sottolinea con preoccupazione lo“spostamento semantico” per cui “si parla di post-verità e non più di menzogna”. La presenza di quest’ultima nel discorso politico, peraltro, è vecchia come il mondo.
“Il problema – spiega Violi – è che oggi la menzogna non viene più sanzionata e quando viene scoperta sembra che sia sufficiente chiedere scusa, anche quando la stessa menzogna è stata all’origine di eventi che hanno provocato decine di migliaia di morti”. Il riferimento esplicito è alle prove false costruite per giustificare la guerra in Iraq.
“Falsità dei contenuti, plausibilità, diffusione virale” sono i tre elementi che caratterizzano la post-verità. Purtroppo i siti d’informazione, anche quando concorrono a svelare la falsità di certe notizie, finiscono in qualche modo per rincorrerle e rilanciarle, ma, in altri casi, le bufale sono clamorosamente false e nonostante questo riescono a fare breccia nell’opinione pubblica.
Com’è possibile questo? E perché tanti preferiscono fidarsi del “si dice” digitale o di fonti quantomeno dubbie invece che dei siti che fanno informazione professionale?
È certamente doveroso chiedere un ruolo più incisivo e rigoroso dei siti d’informazione e un più tempestivo controllo da parte dei gestori dei social network. Ma senza farsi troppe illusioni. Il problema va rovesciato. Alla fine, dice Peverini, “l’unica risposta realistica è la formazione delle persone”.

 

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