Strappi e tatuaggi

Strappi e tatuaggi

In questo momento sto leggendo un romanzo di Guillermo Arriaga che ho preso, lasciandomi guidare dalla suggestione del titolo: Salvare il fuoco.

L’autore analizza una società complessa e ricca di contraddizioni, senza però rinunciare al mistero e alla suspance.
Il suo è un ritratto così accurato e coinvolgente, da essersi guadagnato il Premio Alfaguara 2020, con questa motivazione: “Un romanzo polifonico, che racconta con intensità e dinamismo eccezionali una storia di violenza nel Messico di oggi, dove l’amore e la redenzione sono ancora possibili.”
Una pagina mi ha fatto riandare al Cre, ad una delle figure che ogni settimana guidavano la preghiera, presentate attraverso alcune immagini: Santa Giuseppina Bakhita, una sudanese rapita bambina e venduta più volte nei mercati africani di schiavi, resa libera a Venezia, divenuta cristiana e religiosa nelle Figlie della Carità; passò il resto della sua vita in Cristo nella città di Schio prodigandosi per tutti. In una delle vignette proiettate si vedeva il generale turco che la comprò, mentre diceva di volerle fare dei tatuaggi per ricordarle che era sua proprietà. Nella preghiera di quel giorno avevamo fatto riferimento proprio alla moda di tatuaggi e marchi sul corpo, senza dimenticare i numeri marchiati sul corpo di deportati e internati nei campi. Ma ecco quello stralcio del libro: Furono impressionati dalla quantità di tatuaggi dei ballerini e delle ballerine. All' epoca di mio padre soltanto i marinai e i detenuti si tatuavano. Perché da un po' di tempo lo facevano anche i giovani benestanti? Juliàn azzardava una tesi: "La classe media e quella alta vivono adesso così protette, con un' esistenza così controllata, che i giovani sono privi di cicatrici. E in mancanza di cicatrici si tatuano. È sempre per questo che i vestiti nuovi che comprano sono rotti e fintamente consumati, come se fossero stati usati per anni in lavori duri. A queste generazioni mancano ferite, strada, botte." Era vero.
I vestiti li vendevano con le toppe, scuciti, con false macchie di grasso o di pittura. Indumenti da meccanici o da muratori per ragazzini agghindati con autista sulla porta e accesso ai locali più esclusivi. Cicatrici sulla pelle e sulla stoffa per ferite inesistenti.
Per un verso mi pare di condividere il pensiero che i ragazzi (ma non solo loro) “in mancanza di cicatrici si tatuano". E che nella scelta dei vestiti i ragazzi (ma sempre non solo loro) ci siano “cicatrici sulla stoffa per ferite inesistenti”.
Per un altro verso, però, mi viene da dire che, anche se non evidenti, i ragazzi di cicatrici ne abbiano (e non solo loro). Allora, segnare la pelle, a volte ferirla o maltrattarla, non è solo moda, ma un esplicitare che ci sono cose del profondo che si fa fatica a rimarginare.
Certo, i tatuaggi parlano anche di date, volti, simboli, nomi, storie, passioni... ma forse anche di strappi e lacerazioni.
 

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