letterina 20170702

“Vivo o morto tornerò…”

San Giovanni XXIII torna a Sotto il Monte. Nel 2018 i suoi resti mortali, dalla Basilica di San Pietro, torneranno per un periodo limitato nel suo Paese natale, realizzando il desiderio che lui stesso aveva manifestato negli ultimi mesi del suo pontificato: «Vivo o morto tornerò nella mia terra». «Si tratta di un evento eccezionale – ha sottolineato il vescovo Francesco annunciando l’evento – avvenuto in passato soltanto per un altro pontefice, Pio IX, qualche anno fa». La richiesta è stata inoltrata dalla diocesi a Papa Francesco accogliendo il desiderio di don Claudio Dolcini, parroco di Sotto il Monte, motivato dalla forte devozione dei pellegrini nei confronti di San Giovanni XXIII, e dalla ripetuta richiesta, arrivata da molti, di poterlo venerare nel suo paese natale. «Sotto il Monte – ha osservato il vescovo Francesco – è l’icona di ciò che Papa Giovanni ha rappresentato. Ci ha riempito di gioia sapere che il nostro appello è stato accolto positivamente». Non sono ancora stati definiti il programma e il periodo preciso dell’arrivo delle spoglie di Papa Giovanni, anche se è stata formulata l’ipotesi che possa ruotare intorno al 3 giugno del 2018, 55° anniversario della morte (3 giugno del 1963), nell’anno del sessantesimo dell’elezione al pontificato (28 ottobre 1958): «Il nostro desiderio – ha precisato il vescovo – è che possa fermarsi anche nella Cattedrale, un passaggio particolarmente significativo nella chiesa che rappresenta il cuore della comunità bergamasca».  San Giovanni XXIII torna a Sotto il Monte. Nel 2018 i suoi resti mortali, dalla Basilica di San Pietro, torneranno per un periodo limitato nel suo Paese natale, realizzando il desiderio che lui stesso aveva manifestato negli ultimi mesi del suo pontificato: «Vivo o morto tornerò nella mia terra». «Si tratta di un evento eccezionale – ha sottolineato il vescovo Francesco annunciando l’evento – avvenuto in passato soltanto per un altro pontefice, Pio IX, qualche anno fa». La richiesta è stata inoltrata dalla diocesi a Papa Francesco accogliendo il desiderio di don Claudio Dolcini, parroco di Sotto il Monte, motivato dalla forte devozione dei pellegrini nei confronti di San Giovanni XXIII, e dalla ripetuta richiesta, arrivata da molti, di poterlo venerare nel suo paese natale. «Sotto il Monte – ha osservato il vescovo Francesco – è l’icona di ciò che Papa Giovanni ha rappresentato. Ci ha riempito di gioia sapere che il nostro appello è stato accolto positivamente». Non sono ancora stati definiti il programma e il periodo preciso dell’arrivo delle spoglie di Papa Giovanni, anche se è stata formulata l’ipotesi che possa ruotare intorno al 3 giugno del 2018, 55° anniversario della morte (3 giugno del 1963), nell’anno del sessantesimo dell’elezione al pontificato (28 ottobre 1958): «Il nostro desiderio – ha precisato il vescovo – è che possa fermarsi anche nella Cattedrale, un passaggio particolarmente significativo nella chiesa che rappresenta il cuore della comunità bergamasca».  Accanto alla devozione popolare, che pure occupa un posto importante, ci sono diversi temi che fanno da sottofondo a questo particolare passaggio di San Giovanni XXIII nella sua terra natale: «Ci sono innanzitutto la tensione alla pace e alla speranza, che in questo momento sono sottoposte a smentite, contraddizioni e fragilità; c’è l’esperienza del Concilio, la ventata dello Spirito giunta grazie all’intuizione di Giovanni XXIII; ci offre anche una strada da seguire anche nel campo del dialogo ecumenico e interreligioso». Accogliamo quindi la notizia dell’arrivo della salma nella nostra terra come una notizia carica di speranza, coraggio e rilancio dei valori sui quali si fonda anche la comunità bergamasca».

   

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letterina 20170625

DettoFatto: scoppia l'estate

Ci sono le magliette gialle con la «a» di animatore, quelle rosse con la «c» di coordinatore, quelle azzurre con la «d» di don... Dalla regia Upee (l’Ufficio diocesano per la pastorale dell’età evolutiva) ci hanno detto che qualcuno potrebbe vedere in giro anche quella con la «v» di vescovo, perciò attenzione (ma da noi il Vescovo è arrivato da poco e con grande sorpresa)
I motori dei Centri ricreativi estivi si sono già avviati in giro per la diocesi, nelle parrocchie di città e provincia, in una girandola di colori e di allegria, seguendo l’hashtag del momento #cremeraviglia si può averne un assaggio. È un movimento di oltre 100 mila persone: bambini e ragazzi tra i 4 e i 13 anni, adolescenti, giovani, papà, mamme, nonni, che riempiono l’estate di un’ondata positiva di energia, idee, creatività.
Anche noi partiamo: lunedì 26 giugno con il Cre e il 3 luglio con il baby. Il filo conduttore scelto quest’anno «DettoFatto» è un’invito a diventare «custodi del creato». Come ogni anno i Cre non sono soltanto un aiuto prezioso per le famiglie e un intrattenimento divertente per bambini e ragazzi, ma una preziosa occasione educativa, a partire dal tema proposto: «DettoFatto – Meravigliose le tue opere» si concentra sulla creazione.
Tra i testi che l’hanno ispirato c’è sicuramente l’enciclica «Laudato sì» di Papa Francesco, in cui si parla di clima, di ambiente, di ecologia, ma sempre a partire dalle relazioni, ed è questa la chiave scelta anche per le attività degli oratori: «L’ecologia – spiega don Emanuele Poletti, direttore dell’Upee – corrisponde a una cura dell’ambiente che non può esserci se non c’è cura delle relazioni. Nelle relazioni umane c’è spesso fatica e scattano facilmente le dinamiche dello sfruttamento, così avviene anche nel rapporto tra uomo e natura. Dall’osservazione di ciò che accade comunemente emerge la necessità di rifletterci su, di recuperare la qualità dei rapporti: dal rispetto dell’altro discende anche il rispetto dell’ambiente, di ciò che abbiamo intorno, il desiderio di non inquinare, di usare correttamente le risorse». Partendo da sé e seguendo questa strada tutti, anche i più piccoli, possono prendersi la loro parte di responsabilità.

 

  

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letterina 20170618

La terapia dell’abbraccio

Facciamo la festa degli anniversari di matrimonio con le parole del Papa, rivolte nella catechesi del mercoledì alle 12mila persone presenti. Sono un’approfondita analisi psicologica del male di vivere del nostro tempo. L’unica medicina è l’abbraccio di un padre, che ci ama sempre, tutti, buoni e cattivi. 

“Nessuno di noi può vivere senza amore”, l’esordio dell’udienza: “E una brutta schiavitù in cui possiamo cadere è quella di ritenere che l’amore vada meritato”. Se non siamo forti, attraenti e belli, nessuno si occuperà do noi: è da qui, dalla “strada della meritocrazia”, che arriva buona parte dell’angoscia dell’uomo contemporaneo, che cerca una visibilità solo per colmare un vuoto interiore, come se fossimo eternamente in cerca di conferme. Ma un mondo di mendicanti di attenzione altrui, senza la gratuità del voler bene, è un inferno: “Tanti narcisismi dell’uomo nascono da un sentimento di solitudine, anche di orfanezza”.

L’amore, invece, chiama per nome. Quando un adolescente non si sente amato, può nascere la violenza, il monito del Papa. Dietro tante forme di odio sociale e di teppismo c’è spesso un cuore che non è stato riconosciuto: “Non esistono bambini cattivi, come non esistono adolescenti del tutto malvagi, ma esistono persone infelici”.

La vita dell’essere umano è uno scambio di sguardi: guardarsi negli occhi vuol dire aprire le porte del cuore. Dio ama per primo, ci ha voluto bene anche quando eravamo sbagliati, mentre eravamo ancora peccatori, o quando eravamo lontani, come il figliol prodigo della parabola. “Per amore nostro Dio ha compiuto un esodo da sé stesso, per venirci a trovare in questa landa dove era insensato che lui transitasse”...“Non c’è alcuna maledizione sulla nostra vita, ma solo una benevola parola di Dio, che ha tratto la nostra esistenza da nulla. C’è Qualcuno che ha impresso in noi una bellezza primordiale, che nessun peccato, nessuna scelta sbagliata potrà mai cancellare del tutto”...Per cambiare il cuore di una persona infelice, bisogna anzitutto abbracciarla, conclude il Papa dialogando con i fedeli in piazza.
“Amore chiama amore, in modo più forte di quanto l’odio chiami la morte”.
Dio è un padre che ci ama come siamo, ci ama sempre, tutti, buoni e cattivi, la conclusione a braccio dell’udienza.

Auguri anche così alle coppie

  

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letterina 20170611

Ci siamo!!!

 

I lavori di ristrutturazione della Casa di Comunità sono giunti al termine nella quasi totalità. Abbiamo chiesto al rappresentante della Parrocchia come Responsabile del cantiere -Franco Benedetti- alcune righe per esplicitare i criteri che hanno guidato questa impresa.

I lavori di ristrutturazione della casa, posta sotto il vincolo paesaggistico monumentale, sono iniziati molto tempo prima dell’apertura cantiere. È stata pensata e progettata tenendo ben presenti due aspetti importanti: il risanamento e la funzionalità.

Il risanamento. - La casa era stata costruita su terreno alluvionale con materiale di riporto lasciato sul posto dai lavori di costruzione della chiesa parrocchiale. Il lavoro di consolidamento a sostegno della casa è stato realizzato con 116 pali lunghi 9mt collocati sul perimetro interno ed esterno di tutti i muri portanti. I pali poi con travi di collegamento hanno fatto un corpo unico con muri portanti.

La funzionalità. - Il consiglio Affari Economici con i progettisti hanno lavorato per molte serate. Abbiamo valutato diverse soluzioni e fra tutte, quella che abbiamo adottato è stata ritenuta la migliore. Il lavoro della casa è stato pensato, progettato ed eseguito in conformità ai vincoli di legge, approvato dalla Curia Vescovile e dagli Enti Competenti. Abbiamo scelto materiali di qualità, perché dovrà durare nel tempo, come quella avuta in eredità dai nostri padri costruita un secolo fa (anno fine lavori 1909). I lavori sono durati un anno e mezzo. In questo tempo abbiamo affrontato molti imprevisti, alcuni anche spiacevoli, ma l’intento nostro è sempre stato quello "di fare le cose bene e nei tempi programmati". 

Il nostro motto è e continuerà ad essere : ”Avanti, forza e coraggio”.

 

 

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letterina 20170604

Babele e Pentecoste

La Pentecoste cristiana prende nome e tempi da quella ebraica. Gli ebrei celebravano la Pentecoste cinquanta giorni dopo la Pasqua, chiamata anche “festa delle settimane” o “festa delle primizie”, perché cadeva sette settimane dopo l’inizio della mietitura. Si trattava, dunque, di una festa agricola durante la quale si offrivano a Dio le primizie del raccolto, come ringraziamento che si trasformò in una commemorazione dell’alleanza, della Torah, della legge santa donata da Dio a Israele.
La Pentecoste era l’occasione di un grande afflusso di gente che arrivava a Gerusalemme da tutti i paesi del Mediterraneo. Luca descrive l’effusione dello Spirito con immagini che ricordano la manifestazione di Dio che, sul Sinai, chiama Mosè per mandarlo a liberare Israele dall’Egitto: è fuoco, vento e anche lingua che conferisce la forza di parlare. I molti giudei praticanti e simpatizzanti che si sono recati a Gerusalemme per le festività, nonostante le loro differenze e nonostante le loro diverse lingue, capiscono tutti il messaggio annunciato dagli Apostoli. I commentatori sono d’accordo: Luca racconta la Pentecoste come evento antitetico rispetto a Babele. A Babele gli uomini prendono l’iniziativa e “salgono” verso Dio con la loro torre; Dio scende e scompiglia l’unica lingua fino ad allora parlata dagli umani. A Pentecoste è Dio che prende l’iniziativa, scende sugli uomini e le molte lingue non sono più un ostacolo all’ascolto delle meraviglie operate da Dio e annunciate dagli Apostoli. È il fascino di Pentecoste. La quale non è un ritorno a Babele, dunque, ma un suo superamento. Non si torna all’unica lingua uguale per tutti. Le diverse lingue restano ma non dividono più e non sono più un ostacolo all’ascolto della bella notizia.
Non è fuori luogo pensare, mi sembra, che oggi, tra di noi, sta tornando lo spirito di Babele. Alle diversità sempre più stridenti e sempre più ravvicinate si oppone un desiderio violento di unità. Alcuni osservatori fanno notare che, di solito, quando si impone dall’alto una visione unitaria, fino gli estremi folli delle dittature, si precipita inevitabilmente verso la guerra. Qualcosa di simile si può dire anche della Chiesa. Se si abbraccia un’idea uniforme di unità, la Chiesa si spacca. Spesso le grandi divisioni dentro la comunità sono figlie di una concezione uniforme e autoritaria della Chiesa.
Ma qualcosa di simile si può dire anche di un’esperienza totalmente diversa, quella della coppia. La coppia felice è quella che sa accettare tutte le diversità, a cominciare da quella sessuale, con tutto quello che ne deriva: che non è solo corpo, ma psicologia, sensibilità, caratteristiche personali, educazione ricevuta... La coppia felice sa accettare e valorizzare tutte quelle differenza. La coppia felice è una coppia pentecostale. Al contrario i molti femminicidi di cui ci parla quotidianamente la cronaca nera, sono quasi sempre il risultato di una visione distorta che non sa accettare la donna come “altra”, “diversa”. Invece di accettare quella diversità si impone la propria uniformità. Si potrebbe dire che il femminicidio è un assassinio tipico di Babele, della città compaginata dove tutti devono essere uguali a tutti. E si potrebbe aggiungere dunque che, se Babele fa morire, Pentecoste fa vivere.

 

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letterina 20170528

Ragioni buone

Un evento di grande gioia e speranza per la Chiesa di Bergamo. Sabato pomeriggio 27 maggio alle 17, in Cattedrale, il vescovo Francesco Beschi ordina sacerdoti sette diaconi (nel 2016 non ci furono ordinazioni).

Vedere dei giovani diventare preti oggi, suscita sempre un po’ di meraviglia. La meraviglia che dei giovani, giovani di oggi, abbiano trovato delle ragioni buone per una scelta così impegnativa. Non si diventa preti per fare carriera e per fare soldi, si diceva un tempo. Parole sante, allora. E, se si vuole, sante anche oggi. Ma la situazione ovviamente è cambiata.
La carriera resta ancora un pericolo. Il sogno di diventare “qualcuno” nella Chiesa, vescovi o cardinali, resta vivo. Anche se, con i tempi che corrono, con i problemi che la Chiesa deve affrontare, se uno desidera diventare vescovo è segno evidente che non è adatto. Gli manca la dote di fondo: il “comprendonio”, come diceva mio nonno. Cioè non capisce come è difficile quel compito e come è auspicabile, non arrivarci, ma evitarlo. E se non capisce una cosa così ovvia, è ovvio che non capisce neanche le altre. E allora è meglio che giri alla larga.
Per i soldi il problema è più semplice. Un mio amico prete taglia corto: “Se uno diventa prete per fare soldi va cacciato a casa subito, non perché desidera i soldi ma perché è un deficiente”. Ancora questione di comprendonio: i soldi non si trovano lì. Si trovavano forse. Ma non si trovano più.
Ecco: la meraviglia di fronte a giovani che diventano confratelli è proprio questa: se hanno deciso così vuol dire che hanno trovato dei buoni motivi per decidere. E quei buoni motivi che li hanno portati oggi a decidere sono in parte simili a quelli che sostengono noi di un’altra generazione a continuare sulla stessa strada. Perché la situazione dei credenti oggi e quindi dei preti che sono al servizio di questi credenti è uguale per chi è giovane e per chi è vecchio. Ma se è uguale oggi, è diversa da quella di quando siamo stati ordinati noi.
Mi pare evidente che servire la Chiesa di Papa Francesco chiede molto più coraggio di quello che ci si chiedeva, cinquant’anni fa, che servire la Chiesa di Papa Giovanni e di Papa Montini. La Chiesa incerta e dubbiosa di oggi non è la Chiesa euforica di allora. Forse è anche per questo che i preti che vengono ordinati oggi sono meno numerosi di quelli che veniva ordinati cinquant’anni fa. Ci vuole più coraggio, appunto, e non tutti ce l’hanno. Ma il fatto che qualcuno ce l’abbia è un grande segno di speranza, anche per noi “avanzati negli anni”. In fondo, semplificando molto e lasciandoci un po’ andare a una qualche forma di romanticismo ecclesiastico, questo significa che davvero il Signore non ci ha proprio del tutto abbandonato. Abbiamo anche altri segni che ci confortano, per la verità, ma questo ci conforta in maniera diretta e particolare. È come un invito cordiale, convincente a continuare a guardare avanti. Ne vale la pena, ancora e nonostante tutto.

don A.Carrara

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