letterina 20170521

Vitelli e vitelloni

Ci fu il tempo dei vitelloni, ma, prima ancora, quello del vitello d’oro. Anzi, sembra che questo non sia mai finito.
Arriva il tempo delle giornate eucaristiche che viviamo anche in preparazione alla festa di Prima Comunione; è stato montato in chiesa parrocchiale l’apparato con centinaia di candele e luci per arrivare al centro, cioè al Corpus, al Corpo di Cristo. Le quarantore come ce le consegna la tradizione della Chiesa (sì, 40 ore per adorare) sono da noi diluite lungo l’anno e in diverse occasioni, riconoscendo che questa forma di preghiera non è scomparsa, anzi. Il senso? Semplice: solo a Dio va tutta la nostra adorazione, solo dinanzi a Lui possiamo piegare le ginocchia (qualcuno dice: mettiamo l’imbottitura sugli inginocchiatoi...) prostrandoci in preghiera, sicuri che questo gesto, lungi dal mortificare la nostra vita, la promuove dilatando ogni facoltà affettiva e intellettiva. Al contrario, quando ci “inginocchiamo” per adorare il nostro io, considerandolo il referente primo ed ultimo della nostra vita, oppure quando abbiamo l’ardire di innalzare sui “troni dorati” del mondo ciò che è semplicemente creaturale, offrendo l’incenso del nostro affetto, ci ritroviamo più poveri, schiavi dell’idolo che abbiamo fabbricato con le nostre mani.
In tal modo, l’alto e nobile significato del termine adorazione, che in latino significa: “ad-oratio – contatto bocca a bocca, bacio, abbraccio e quindi in fondo amore” (Benedetto XVI, 21 agosto 2005), ne rimane profondamente impoverito, deturpato e distorto.
Anche ai nostri giorni l’episodio biblico del vitello d’oro continua ad essere attuale: mentre il culto eucaristico si impoverisce, aumentano a dismisura coloro che bruciano incensi al toro d’oro del potere, del piacere, del denaro e che piegano le ginocchia ai vari “signori del mondo”, oggi di turno sulla terra. “Tra voi, però, non sarà così” ci ammonisce il Signore! Il cristiano, infatti, sa bene che solo Dio è degno di tutta la nostra lode e della nostra adorazione, perché Lui solo è grande, Lui solo è buono.
La preghiera di adorazione all’Eucaristia, tuttavia, è difficile da vivere poiché necessita di silenzio esteriore ed interiore, di calma e di raccoglimento, di un cuore capace di desiderio e di passività per lasciarsi amare da Colui che si desidera con tutto il cuore, anche a costo di sperimentare il vuoto, il deserto, l’aridità e distrazioni di ogni genere: impegno e perseveranza, fede viva e semplice sono ingredienti indispensabili.

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letterina 20170514

Fatima

Qual è il motivo delle apparizioni della Madonna, nella storia?

«Le manifestazioni mariane sono un fenomeno ricorrente nella storia della Chiesa. Fondamentale, per comprenderle, è la categoria dell'incontro. Si tratta, infatti, di eventi in cui la Madre del Signore visita determinate terre perché vedano Maria e ascoltino quanto ella ha da dire con le parole, con il silenzio e con eventuali segni (come il miracolo del sole a Fatima). E i veggenti dovranno poi avere la pazienza e la forza di annunciare agli altri quello che essi hanno sperimentato, anche se tutto ciò procurerà loro difficoltà e sofferenze. Maria però non viene per annunciare se stessa, bensì quel che la Trinità le chiede di far conoscere a determinati individui e comunità. Le manifestazioni mariane nascono dunque dalla "preoccupazione" di Dio per la vita e il futuro dei suoi figli»

Questa presenza di Maria è spesso accompagnata da messaggi profetici. Che obiettivo hanno? 

«In molti casi, come a Fatima, ella rende pubblicamente conoscibile e comprensibile il futuro che potrebbe riguardare alcune comunità cristiane e il territorio che esse abitano. Senza tale rivelazione particolare, questo futuro non è benedetto, bensì maledetto, nel senso che è all'insegna della morte e della sofferenza, e non della vita. La conoscenza del futuro offerta dalla profezia ha quindi lo scopo di rendere evidente, nel presente, una malvagità che si camuffa, presentandosi come bontà e giustizia. Stanare questo male, obbligandolo a mostrarsi per quel che è veramente, risulta il passaggio necessario affinché il futuro maledetto non accada, anzi possa essere modificato in futuro di benedizione. In sostanza, la profezia non rende nota l'immutabilità del futuro, ma illumina il presente per costruire un futuro nuovo e diverso, che corrisponda alla preoccupazione di Dio».

Qual è dunque l'attualità di quel messaggio?

«Oggi, dopo cento anni, l'Europa e il mondo intero, attraverso l'opera della Chiesa, si ritrovano di fronte a questa profezia. Si tratta di un momento favorevole, di un'occasione preziosa, per l'Europa e per il mondo. Il futuro annunciato nel 1917 si è in parte compiuto, in parte no. Il male e la malvagità continuano a occultarsi e nascondersi, in forme che sono sia simili che differenti rispetto a quelle del 1917. La profezia del Segreto attende ancora una risposta. L'Europa e il mondo devono scegliere se continuare la "Terza guerra mondiale a pezzi" di cui parla papa Francesco - e in essa continuano a moltiplicarsi gli inferni temporali ed eterni dove si bestemmia il nome di Dio - oppure se intraprendere le vie del cambiamento che sono l'esperienza credente (il Cuore immacolato di Maria), il rifiuto dell'ateismo di comodo e la promozione di una esperienza religiosa di qualità (la consacrazione della Russia alla Madonna), il coraggio dell'amore del nemico (la penitenza del vescovo vestito di bianco). Vie nelle quali si condensa l'eredità ecclesiale del concilio Vaticano II, che attende anch'essa cuori, corpi e menti che l'assumano come programma di vita».

Stralci di intervista al mariologo Gian Matteo Roggio

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letterina 20170507

L’unico estremismo: la carità

Ai 25mila fedeli provenienti da tutto l’Egitto e sistemati sugli spalti dell’“Air Defense Stadium”, lo stadio dell’aeronautica militare, Papa Francesco nella celebrazione dell’unica messa del breve viaggio nella capitale egiziana, ha lanciato un forte messaggio.
Nel Paese a stragrande maggioranza islamica, i cattolici sono poco meno di 300mila, un’esigua minoranza all’interno della minoranza copto-ortodossa che pure conta circa 12 milioni di fedeli: “Dio gradisce solo la fede professata con la vita, perché l’unico estremismo ammesso per i credenti è quello della carità! Qualsiasi altro estremismo non viene da Dio e non piace a Lui!”.
Un “messaggio” che acquista rilievo particolare perché lanciato in una terra dove il terrorismo ha messo da tempo, ormai, i cristiani nel mirino, vittime di una lunga scia di attentati che hanno provocato decine e decine di morti. La strada indicata dal Pontefice è lastricata di carità e perdono:
“La fede vera è quella che ci rende più caritatevoli, più misericordiosi, più onesti e più umani; è quella che anima i cuori per portarli ad amare tutti gratuitamente, senza distinzione e senza preferenze; è quella che ci porta a vedere nell’altro non un nemico da sconfiggere, ma un fratello da amare, da servire e da aiutare; è quella che ci porta a diffondere, a difendere e a vivere la cultura dell’incontro, del dialogo, del rispetto e della fratellanza; ci porta al coraggio di perdonare chi ci offende, di dare una mano a chi è caduto; a vestire chi è nudo, a sfamare l’affamato, a visitare il carcerato, ad aiutare l’orfano, a dar da bere all’assetato, a soccorrere l’anziano e il bisognoso. La vera fede è quella che ci porta a proteggere i diritti degli altri, con la stessa forza e con lo stesso entusiasmo con cui difendiamo i nostri. In realtà, più si cresce nella fede e nella conoscenza, più si cresce nell’umiltà e nella consapevolezza di essere piccoli”.
Una vera e propria esortazione a non chiudersi in se stessi a causa delle difficoltà presenti che interpella tutti i cristiani del Medio Oriente. Concetti ribaditi anche nel pomeriggio, durante l’incontro con clero, seminaristi, religiosi e religiose, oltre 1.500, radunati nel seminario maggiore copto di al Maadi. “Non abbiate paura del peso del quotidiano, del peso delle circostanze difficili che alcuni di voi devono attraversare. Noi veneriamo la Santa Croce, strumento e segno della nostra salvezza.Chi scappa dalla Croce scappa dalla Risurrezione!”.
“Il Buon Pastore ha il dovere di guidare il gregge. Non può farsi trascinare dalla delusione e dal pessimismo”.

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letterina 20170430

Maschio e femmina li creò...

Il testo biblico della Genesi non parla di "uomo e donna", bensì di "maschio e femmina".
Questo è un dettaglio importante, poiché suggerisce che la realtà ontologica del "uomodonna" ha bisogno di scaturire dal "maschio-femmina" e non è considerata come un elemento dato, ma deve emergere da una singolare elaborazione della differenza tra maschio e femmina. Noi siamo in realtà maschi e femmine, come la natura ci ha creati. Per diventare uomo e donna cresciamo lungo un percorso che solo il genere umano è in grado di compiere e che dipende da aspetti culturali, ambientali, relazionali, ecc. La genesi ci invita, quindi, a considerare che la differenza dei sessi nella pienezza della sua realtà antropologica, implica un processo ed una elaborazione.
Come dice Jacques Maritain, "il sesso fonda soltanto la differenza animale, per quanto importante ed immediatamente evidente possa essere, ma non fonda le differenze propriamente umane tra l'uomo e la donna".
Nel contesto attuale l’accoglienza delle differenze sembra a rischio, minacciata da una prepotente tendenza all’omologazione, persino tra uomo e donna. Lo stesso papa Francesco ci invita a non rimuovere le differenze, oggi messe in discussione da alcuni sviluppi degli “studi di genere” comunemente indicati come “teoria del gender”.
Questa sostiene che non esistono differenze biologiche tra femmine e maschi, essendo la femminilità e la mascolinità costruzioni culturali indotte, dalle quali bisogna liberarsi per stabilire una autentica uguaglianza tra gli essere umani. In quest’ottica, la parola gender va contrapposta alla parola sesso, che si riferisce, invece, alle differenze biologiche tra maschi e femmine. In altri termini, nella coppia sesso-genere, il primo indica la contrapposizione tra l’anatomia dell’uomo e della donna (sesso), mentre il secondo riguarda i costumi, i compiti ed i ruoli che vengono attribuiti al maschile e al femminile (genere).
Nel dibattito sulla teoria del gender, si contrappongono spesso un riferimento fissista alle differenze dei sessi, date come elementi rigidi, ed un riferimento “liquido” che si traduce nell’indeterminata trasformazione di una base corporea sempre da riscrivere.
I sostenitori della teoria del gender oppongono frontalmente natura e cultura, tolgono al corpo la sua consistenza, negano la differenza sessuale a vantaggio di un costruttivismo. Nella prospettiva di quest’insieme di teorie, le identità sessuali si riducono ad essere mere convenzioni culturali, dunque arbitrarie e quindi revocabili e la pretesa dell'uomo ad autodeterminarsi si scontra con il corpo sessuato, indice assoluto della nostra finitudine...
Il dibattito è dunque aperto e ci fa percepire l’urgenza di un’antropologia che integri tutte le dimensioni costitutive dell’essere umano: il corpo, la psiche, la società, la cultura e, soprattutto, la libertà come regista. Ma è necessario ricordare che la libertà diventa costruttiva quando è unita alla responsabilità: “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati alla libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l'amore siate invece a servizio gli uni degli altri” (Gal 5, 13).

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letterina 20170423

Morti ambulanti...

Nel Credo, proclamiamo: “Aspetto la risurrezione dei morti”, ovviamente pensiamo alla risurrezione dei nostri corpi all’ “ultimo giorno”, secondo la promessa di Gesù (Gv 5, 28) ribadita più volte da S. Paolo (Rm 8,11…). Ma c’è una promessa di Dio già nell’A. T. a cui dobbiamo pure prestare attenzione, anche se non riguarda la risurrezione dei corpi.
Dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio... Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete... L’ho detto e lo farò”. (Ez 37,12-14).
Sono parole che riguardano la liberazione del popolo dalla schiavitù, dalla perdita della propria dignità, dalla morte civile e spirituale. Riguardano tutte quelle persone che sono morte ancora prima di morire, morte dentro, persone anche giovani che non attendono niente, senza speranza, perché non hanno nessuna fede.
È un tema che sta molto al cuore al Papa soprattutto in riferimento ai giovani. Alla Gmg di Cracovia, il 28 luglio del 2016, ha ripetuto: “Mi addolora incontrare giovani che sembrano pensionati prima del tempo”. E, con animo accorato, si è rivolo a loro direttamente: “Non gettate la spugna prima di iniziare la partita!“. Francesco stesso spiega che, quando parla così, ha in mente i giovani “essenzialmente annoiati”, quelli che “camminano con la faccia triste, come se la loro vita non avesse valore”, quelli che vanno alla ricerca della “vertigine alienante” o di quella “sensazione di sentirsi vivi per vie oscure che poi finiscono per pagare e pagare caro”. In una parola che ha in mente gli zombi, i morti ambulanti.
Ma il Papa non ha presente solo i giovani. La nostra civiltà, così salutista e vitalista, è in realtà tutta intrisa di sintomi di morte. Francesco ne segnala con insistenza la causa. Gesù ci aveva detto che non si può servire Dio e il denaro. C’è qualcosa tra questi due che non va... che ci allontana da Dio. E, citando S. Paolo (1Tm 6, 2-12) ha detto: Quelli che vogliono arricchirsi cadono nella tentazione dell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. Il Papa si riferiva a quanti dicono di essere cattolici perché vanno a messa, ma “sotto sotto fanno gli affari loro” e ha ricordato che S. Paolo definisce questi cristiani: Uomini corrotti nella mente»! Il verbo corrompere indica, tra l’altro, proprio la decomposizione dei cadaveri.
Capiamo bene perciò che cosa vuol dire il Papa quando afferma: Gesù si è privato della vita per liberare dalla corruzione. Il tempo di Pasqua ci chiama a risorgere da questa corruzione e ad incamminarci sulla strada della vita.

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letterina 20170416

“Senza la Pasqua non possiamo!”

La Domenica delle Palme è chiamata anche “di passione” perché apre le liturgie della settimana santa, culminanti nella notte pasquale: raramente tale titolo è stato di così tragica pertinenza come Domenica scorsa a Tanta e Alessandria d’Egitto.
Da tempo i copti in Egitto sono vittime di ripetute violenze e stragi: tensioni e conflitti, soprattutto nelle zone rurali, sono esacerbati dall’elemento religioso e conducono a distruzioni di luoghi di culto e a vessazioni e minacce; una vera e propria caccia all’uomo, e ai presbiteri in particolare, è in atto nella penisola del Sinai, obbligando intere famiglie a fuggire verso Ismailia e altre città nei pressi del canale di Suez; mentre negli ultimi tre anni attentati nei luoghi di culto in occasione delle maggiori feste cristiane, quando più numerosa è la partecipazione dei fedeli, hanno colpito famiglie intere, specialmente donne e bambini. Nonostante queste stragi e le perduranti minacce, i copti non rinunciano a testimoniare la loro fede anche pubblicamente, comunitariamente: non smettono di ritrovarsi in chiesa, di mandare i bambini a catechismo, di tatuare sulla pelle il segno della croce, di proclamare apertamente la loro fede. Incoscienza? Volontà di sfida? Vocazione al suicidio di massa? Niente di tutto questo. Solo la ferma, risoluta consapevolezza che, come dicevano i martiri cristiani durante la persecuzione di Diocleziano, “senza la domenica non possiamo!”, non possiamo essere quello che siamo, non possiamo vivere la nostra fede, non possiamo concepire il nostro futuro, non possiamo dirci discepoli del Signore.
Celebrare comunitariamente la Pasqua – e quella “pasqua settimanale” che ricorre ogni domenica – per il cristiano non è una ricorrenza tra le altre, una commemorazione da viversi o meno a seconda di come consiglia la prudenza: si tratta di proclamare la ragione che il credente ha per vivere, quella ragione che lo porta anche ad accettare l’eventualità della morte violenta.
In occasione dei tragici, ripetuti attentati nelle città del nostro occidente, sentiamo ripetere con convinzione il risoluto appello a continuare la nostra vita quotidiana nella convivenza civile: continuare a lavorare, a divertirci, a viaggiare, a incontrarci, a godere di quella libertà per la quale tanti nel secolo scorso hanno pagato un prezzo altissimo.
Ecco, i copti ci ricordano che questo è altrettanto vero e decisivo anche per la vita di fede: nonostante tutto, nonostante la morte in agguato, continuare a fare ciò in cui si crede, a pregare insieme, a celebrare insieme gioie e dolori della vita, a trasmettere ai propri figli le parole e gli insegnamenti che si ritengono portatori di vita e di bene. Così i sempre più numerosi martiri della chiesa copta ci ricordano che ci sono ancora uomini e donne fedeli alla loro testimonianza di vita cristiana e a celebrare insieme la Pasqua, vittoria sulla morte e sull’odio.

Buona Pasqua da credenti
don Giampaolo, don Roberto, don Paolo e don Giuseppe

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