letterina 20151003

Si apre il Sinodo

Sinodo

Don Paolo Gentili, direttore nazionale dell’Ufficio Cei per la Pastorale delle Famiglia, ci parla del Sinodo che si apre il 4 ottobre.

Quale è la portata del Sinodo della Famiglia?
«La questione vera di questo Sinodo è aprire un panorama nuovo sulla famiglia, far sentire il profumo del giardino del “principio”, spalancare la vera bellezza della famiglia che è in Italia e nel mondo. Direi anche, curare quella solitudine che spesso rende l’“inciampo” di un momento una frattura irreversibile e che quindi frena il cuore. Se mettiamo come cura una famiglia accanto a un’altra, molte delle crisi si possono trasformare in una relazione ancora più ricca di comunione. Abbiamo dinanzi agli occhi molte esperienze di questo tipo: dove c’è un aiuto adeguato, non solo dall’Alto, ma dalla “carne viva” di chi ci passa accanto, quella crisi si trasforma in un nuovo “sì” all’amore».

Per quale motivo possiamo definire storica questa assise?
«Fare due Sinodi a poca distanza l’uno dall’altro, due consultazioni di popolo così estese, indica come la Chiesa abbia a cuore l’umanità di questo tempo e si interroghi su come annunciare in modo nuovo il Vangelo della Famiglia. È un po’ come ritornare agli albori del Concilio Vaticano II quando la Chiesa cercò di rivestirsi dell’abito nuziale, di essere più bella e incisiva in questo mondo proprio per rendere fresco l’annuncio di Gesù».

Il Pontefice ha chiesto ai pastori di accompagnare le persone “che sono in situazioni matrimoniali irregolari”. È questo un modo di evangelizzare?
«Fin dall’inizio Papa Francesco ci ha sollecitato a essere una Chiesa che cura i feriti con Misericordia, a essere questo “ospedale da campo” che si fa prossimo a tutte quelle situazioni di fragilità affettiva o di rottura di legami matrimoniali che producono una grande sofferenza, ancor più quando ci sono dei figli di mezzo. Qui la questione non è solo dottrinale, è proprio pastorale, nel senso che chiede un nuovo sguardo della comunità cristiana meno giudicante, sulle orme del Buon Samaritano. Rispetto a chi crede di conoscere bene le regole, lui ci indica “la regola” che è la centralità della persona.

 

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letterina 20150926

Cuba e dintorni

Papa a Cuba

Una folla immensa ha accolto il Papa in Placa de la Revolucion a l'Avana, la stessa delle grandi adunate, celebre per il ritratto di Che Guevara. Riprendiamo qui alcuni spunti dell'omelia, nella domenica in cui affidiamo il mandato agli operatori pastorali, a servizio della Comunità.
Il Pontefice ha invitato a capovolgere la logica del potere. "I discepoli discutevano su chi dovesse occupare il posto più importante, ma «Gesù sconvolge la loro logica dicendo loro semplicemente che la vita autentica si vive nell’impegno concreto con il prossimo, cioè servendo»".
Il Pontefice ha precisato: «Servire significa, in gran parte, avere cura della fragilità. Servire significa avere cura di coloro che sono fragili nelle nostre famiglie, nella nostra società, nel nostro popolo» che Gesù «invita concretamente ad amare. Amore che si concretizza in azioni e decisioni». Sono «persone in carne e ossa con la loro vita, la loro storia e specialmente la loro fragilità, che Gesù ci invita a difendere, ad assistere, a servire...Per questo, «il cristiano è sempre invitato a mettere da parte le sue esigenze, aspettative, i suoi desideri di onnipotenza davanti allo sguardo concreto dei più fragili».
C’è «un ‘servizio’ che serve gli altri; però dobbiamo guardarci dall’altro servizio, dalla tentazione del ‘servizio’ che ‘si’ serve degli altri». «Esiste una forma di esercizio del servizio che ha come interesse il beneficiare i ‘miei’, in nome del ‘nostro’. Questo servizio lascia sempre fuori i ‘tuoi’, generando una dinamica di esclusione», ha avvertito Francesco. Invece, «tutti siamo chiamati dalla vocazione cristiana al servizio che serve e ad aiutarci a vicenda a non cadere nelle tentazioni del ‘servizio che si serve’.
Tutti siamo invitati, stimolati da Gesù a farci carico gli uni degli altri per amore. E questo senza guardare accanto per vedere che cosa il vicino fa o non fa». In realtà, «questo farci carico per amore non punta verso un atteggiamento di servilismo, ma al contrario, pone al centro della questione il fratello: il servizio guarda sempre il volto del fratello, tocca la sua carne, sente la sua prossimità fino in alcuni casi a ‘soffrirla’, e cerca la promozione del fratello. Per tale ragione il servizio non è mai ideologico, dal momento che non serve idee, ma persone». «Non dimentichiamoci della Buona Notizia di oggi: la grandezza di un popolo e di una persona si basa sempre su come serve la fragilità dei suoi fratelli. E in questo troviamo uno dei frutti di una vera umanità. Perché, cari fratelli e sorelle, ‘chi non vive per servire, non serve per vivere’».

 

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letterina 20150919

Donne e uomini capaci di carità

Nascondino

Leggiamo l’inizio della Lettera del Vescovo per l’anno pastorale 2015-2016


L'icona scelta per rappresentare il cammino di quest'anno è quella del Buon Samaritano. Tra i molteplici passaggi del racconto di Gesù, vorrei particolarmente sottolineare il sentimento della compassione. È il sentimento che cambia lo sviluppo della narrazione.
I diversi protagonisti passano sulla medesima strada e vedono la medesima scena, ma colui che avvia un processo di salvezza è chi si lascia muovere interiormente, visceralmente, dalla compassione.
Oggi si sottolinea spesso come le prese di posizione dell'opinione pubblica siano soprattutto di indole viscerale. Si parla di emotività, di istinti, di impulsività, affermando che massmedia e capipopolo sollecitano volutamente queste reazioni per i propri interessi. Nella parabola ci viene presentata una condizione per certi versi analoga, ma di tenore assolutamente diverso: ci troviamo davanti ad una visceralità che muove a condividere la sofferenza di chi soffre, a ribellarsi alle cause di questa sofferenza adottando scelte che non la moltiplichino e a soccorrere in modo fattivo chi dalla sofferenza è provato.
La compassione è la stessa visceralità di Dio nei confronti dell'uomo e della sua radicale condizione di precarietà.
La compassione evangelica rappresenta il tratto del coinvolgimento personale nella relazione con l'altro e determina una trasformazione che assume il volto del prossimo. Gesù indica nell'inseparabilità dell'amore di Dio e del prossimo il comandamento più grande. Questo primo insegnamento è decisivo, ma inevitabilmente solleva la domanda: chi è il mio prossimo? L'esito finale della parabola stravolge ogni definizione di prossimo proiettata fuori di noi e indica invece una scelta, una determinazione, uno stile: il prossimo non si sceglie, ma prossimo si diventa.
Il comandamento dell'amore prevede che sia io a farmi prossimo ad ogni persona umana, particolarmente a chi è provato nella vita. "Va', e anche tu fa lo stesso" è l'indicazione fondamentale che Gesù consegna al lettore del Vangelo e al discepolo che crede in Lui. Chi è il cristiano? Si tratta di una domanda dalle molte risposte. Ne evoco una che può suonare come provocazione, ma che in questo contesto mi sembra del tutto pertinente: "Il cristiano è colui che ama".

+Vescovo Francesco

 

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letterina 20150912

Nascondino

Nascondino

In questo fine settimana Bergamo ospita il campionato del mondo di nascondino. Una notizia curiosa che mi ha fatto andare immediatamente all’infanzia, quando nei grandi cortili del paese o in piazza, bambini e ragazzi giocavano insieme. Certo, bisognava poi fare i conti con le mamme che a casa ci attendevano sudati e fuori orario. E non era sempre festa...
Vado con una punta di nostalgia a questi ricordi, anche quando vedo i figli di oggi soli, chiusi nei loro giochi virtuali, bravi al computer già dai primi anni, ma fragili nelle relazioni. E penso anche ai genitori, bravi pure loro a ficcare il naso in facebook e whatsapp ma a volte incapaci di guardare negli occhi i figli.
Nell’articolo de L’Eco che riportava la notizia, i vecchi giochi, i giochi da cortile, vengon definiti «ad alto profilo pedagogico». Giochi che aiutavano a crescere, a diventare adulti. Il nascondino fra quelli di gruppo, era dei più affascinanti. Insieme al toc, oggi ancora giocato nelle scuole come «Lupo», in diverse versioni a «palla prigioniera», «bandierina». C'erano poi i giochi i individuali, di cui una bella raccolta si trova nel museo del falegname di Tino Sana di Almenno San Bartolomeo: il «pirlì», la «lipp», la trottola, gli aquiloni, i rocchetti (tipo yoyo), la cerbottana, i cavalli a dondolo e via di seguito. Tutti questi giochi aiutavano a strutturare la dimensione sociale del bambino, l’identificazione di sé, ma anche il senso di gruppo e di appartenenza. Ad esempio nel nascondino ci sono ruoli definiti, si scelgono strategie, alleanze, complicità; esiste la dimensione della sfida e dell’antagonismo. Il gioco del nascondino, a pensarci bene, comincia molto presto, quando il bambino ha pochi mesi di vita.

Nascondino

Lo fanno tutti i genitori per esempio nel "bu bu settete" quando si nascondono la faccia con le mani. Il genitore scompare agli occhi del bambino, comunque cambia aspetto...e poi ritorna. Il bambino impara, comincia a farlo anche lui, aumenta il suo grado di autonomia e aumenta il senso del sé. Nel nascondino del cortile entra l'elemento della sfida, del dimostrare la propria abilità. Si insinua il senso di sfidare il pericolo perché talvolta per nascondersi bene si scelgono soluzioni anche un po' rischiose. E poi c'è la speranza di non venire trovato, di scegliere un nascondiglio che ti faccia scomparire e anche il rapporto con l'autorità, con la "guardia" che ti riporta all' «ovile».
Proprio un bel gioco da fare...

 

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letterina 20150905

Potrebbe essere mio figlio

Giuda

News, Star, Gossip, Moda e Cultura: così viene definito il periodico Vanity fair. E forse, proprio per questo, sorprende l’articolo del Direttore, Luca Dini che leggiamo, partendo dalla foto di Aylan.
Questa foto non è «pornografia del dolore». Questa foto è mio figlio. Queste sono le scarpine con cui l’ho visto correre, questo è il mare dove ha imparato a nuotare, questa è la spiaggia su cui ha costruito castelli di sabbia.
Questo bambino potrebbe essere mio figlio.
**Questo bambino aveva 3 anni, si chiamava Aylan ed era curdo di Kobane, Siria, dove il regime di Assad ha seminato terrore per anni, e dove solo questa estate i subumani dell’Isis hanno massacrato centinaia di civili, donne e bambini compresi. Suo padre ha a Vancouver una sorella parrucchiera che sperava di raggiungere. La sorella aveva fatto una colletta tra amici e vicini per sponsorizzare la sua richiesta di visto come rifugiato. Ma la richiesta era stata respinta per complicazioni burocratiche. Per questo il padre aveva deciso di affrontare la traversata tra Bodrum, sulla costa turca, e l’isola greca di Kos. Il canotto si è rovesciato e Aylan è morto con il fratello di 5 anni e la madre. Unico superstite il padre.
È giusto pubblicare quella foto. Non solo ci aiuta a capire la terribile normalità di questi poveretti che tanta nostra politica chiama «clandestini», perché se li si incolpa di qualcosa – sono qui senza averne il diritto – è più facile chiudere gli occhi di fronte alle scene apocalittiche che ogni giorno ci arrivano da Turchia, Grecia, Bulgaria, Macedonia, Serbia, Ungheria, e su su lungo il corridoio della speranza verso l’agognato paradiso tedesco. Ci aiuta anche, quella foto, a capire che cosa spinge così tanti a rischiare la vita, e a chiederci se sia possibile fermarli, e come. Se un padre e una madre, dopo un passaggio in Turchia che non deve essere stato una vacanza, mettono in un canotto i loro bambini di 3 e 5 anni,...è perché quello da cui li vogliono salvare – la presenza quotidiana della morte, le violenze, la mancanza di futuro – è peggio di quello che rischiano.
E venendo alla fiumana che sbarca sulle nostre coste – africani non necessariamente di Paesi in guerra, magari neppure disperatamente poveri, magari semplicemente illusi di trovare un maggiore benessere che non troveranno mai, magari destinati a tornare indietro, dopo aver visto che per loro c’è solo lo schiavismo della raccolta dei pomodori – che cos’è che li muove? La speranza...
In Africa nessuno sa chi siano Renzi e la Boldrini, Salvini e la Meloni. Dell’Italia, al massimo, conoscono i nomi dei calciatori. Non vengono qui perchè sanno che siamo il Paese senza regole. Vengono qui perché sperano di andare altrove e di trovare qualcosa di meglio, perché l’Italia è l’approdo più vicino, e perché nessuno li ferma. E a meno di non sparare loro in mare, l’unico modo di fermarli era quello messo in pratica dai governi precedenti: pagare tangenti al regime libico perché li tenesse chiusi nei lager del deserto, dove la tortura e la schiavitù erano una realtà quotidiana assai peggiore delle scene che vediamo in questi giorni...
Sì, chi viene deve rispettare le regole, e dobbiamo fargliele rispettare.
No, non possiamo accogliere tutti da soli, perché gli standard di sicurezza e delle condizioni di vita – per noi e per loro – vanno assicurati, e solo una soluzione europea può garantire una distribuzione sensata basata sugli spazi e sulle risorse, ed è necessario fare anche scelte difficili, e attuare politiche dure. Qualcuno, forse molti, dovrà essere rispedito indietro.
Prima di dire «se ne tornino a casa loro», però, pensiamo a nostro nipote che va a Londra a fare il cameriere non perché qui non ha di che mangiare, ma perché è stufo di farsi mantenere da genitori e nonni.
E prima di dire «pensiamo ai nostri bambini», ricordiamo che l’essere nato a Voghera invece che a Kobane, l’andare nel mare della Grecia a fare le vacanze invece che a morire, non è un merito: è una fortuna.
La sfortuna non è una colpa. E, come il dolore, si rispetta.

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letterina 20150829

S.Alessandro e gratitudine

Giuda

Quest’anno, nella festa del nostro patrono S.Alessandro, vorremmo in modo particolare sottolineare un aspetto della testimonianza evangelica: quello della gratitudine. È una testimonianza che, se volete, attinge anche alla Lettera che ha accompagnato l’anno pastorale che si è concluso, una Lettera che invitava ad essere sempre più donne e uomini capaci di Eucarestia, quindi capaci di gratitudine...
Non stiamo parlando semplicemente di qualcosa di estemporaneo, ma questa testimonianza della gratitudine vorremmo approfondirla sotto il profilo della virtù, cioè di uno stile di vita: non si tratta quindi semplicemente di un gesto di cortesia, di un gesto di buona educazione alla quale non vogliamo rinunciare, ma si tratta di un modo di vivere, di un modo di essere..
Cari sorelle e fratelli, mi sembra che parlare di gratitudine significhi evocare innanzitutto la memoria. La memoria può essere anche molto dolorosa, ma certamente il momento culminante della memoria si identifica con la riconoscenza: quello è il momento luminoso della memoria. Ma riconoscenza non è soltanto memoria, non si alimenta soltanto alla memoria, si alimenta alla contemplazione, cioè allo sguardo capace di cogliere l’insieme e la profondità delle cose. Senza questo sguardo, che a volte noi esercitiamo inconsapevolmente nelle nostre relazioni familiari, non potremo alimentare una virtù della gratitudine a livello sociale. Gratitudine, infine, è accoglienza: ricordare, riconoscere e ridonare sono i verbi della gratitudine. Ricordare, è la memoria; riconoscere è l’esito dello sguardo contemplativo; e - finalmente - ridonare, che è il segno di aver accolto e assimilato il dono ricevuto.
La gratitudine – vorrei soprattutto sottolineare questo aspetto – è assimilazione: ricevere non è semplicemente accogliere o utilizzare un bene, ma interiorizzarlo, interiorizzare l’intenzione del bene che ci è stato donato. Interiorizzare addirittura il volto della persona che ci ha fatto il dono, interiorizzare il suo animo, interiorizzare la relazione con lui.
Cari fratelli e sorelle, a volte pensiamo che la gratitudine sia un di più, un di più che amiamo, al quale vogliamo educare i nostri figli. Ma comunque un di più rispetto alle necessità cogenti dell’esistenza, alle responsabilità impellenti, sotto ogni profilo, che ci sono affidate. Care sorelle e cari fratelli: questo di più è proprio ciò che ci è necessario.
Il dovere non esclude il dono, il dovere non esclude la gratuità, i diritti e i doveri non escludono il mondo della gratitudine; anzi, è proprio questo mondo, il mondo del dono, il mondo della gratuità, il mondo della gratitudine che dà forza morale e sostenibilità al mondo dei diritti e dei doveri, perché la giustizia non si trasformi semplicemente in qualcosa di implacabile, in qualcosa in cui tutto si vende e tutto si compra.

Stralci dell’omelia del Vescovo Francesco il 26 agosto.

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