letterina 20150711

In famiglia

Giuda

Mi ricordo che una volta chiesero a mia mamma quale dei suoi cinque figli – perché noi siamo cinque fratelli – amava di più; lei disse [mostra la mano]: “Come le dita, se mi pungono questo mi fa male lo stesso come se mi pungono questo”. Una madre ama i suoi figli come sono. E in una famiglia i fratelli si amano come sono. Nessuno è scartato.
Lì nella famiglia si impara a chiedere permesso senza prepotenza, a dire “grazie” come espressione di sentito apprezzamento per le cose che riceviamo, a dominare l’aggressività o l’avidità, e lì si impara anche a chiedere scusa quando facciamo qualcosa di male, quando litighiamo. Perché in ogni famiglia ci sono litigi. Il problema è dopo, chiedere perdono.
La famiglia è l’ospedale più vicino: quando uno è malato lo curano lì, finché si può.
La famiglia è la prima scuola dei bambini, è il punto di riferimento imprescindibile per i giovani, è il miglior asilo gli anziani.
La famiglia costituisce la grande ricchezza sociale, che altre istituzioni non possono sostituire, che dev’essere aiutata e potenziata, per non perdere mai il giusto senso dei servizi che la società presta ai suoi cittadini. In effetti, questi servizi che la società presta ai suoi cittadini non sono una forma di elemosina, ma un autentico “debito sociale” nei confronti dell’istituzione familiare, che è la base e che tanto apporta al bene comune.
La famiglia forma anche una piccola Chiesa, la chiamiamo “Chiesa domestica”, che, oltre a dare la vita, trasmette la tenerezza e la misericordia divina. Nella famiglia la fede si mescola al latte materno: sperimentando l’amore dei genitori si sente più vicino l’amore di Dio. E nella famiglia i miracoli si fanno con quello che c’è, con quello che siamo, con quello che uno ha a disposizione; e molte volte non è l’ideale, non è quello che sogniamo e neppure quello che “dovrebbe essere”.
...In ciascuna delle nostre famiglie e nella famiglia comune che formiamo tutti, nulla si scarta, niente è inutile.

Dall’ Omelia del Papa nel viaggio apostolico a Guayaquil, Ecuador

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letterina 20150704

Anche d'estate...

Giuda

Anche d’estate si muore.
Anche quando fa caldo e tutto porta verso l’ottimismo, la vacanza, il divertimento... ci si incontra-scontra con la morte. E non va nascosta.
Nel Cre, che è arrivato a metà del suo corso, non abbiamo nascosto la morte del nonno di Cristian e del papà di Gaia, una bambina che ha fatto nel maggio scorso la prima Comunione. Il funerale è stato fatto a Ponte San Pietro.
Permettete allora una piccola riflessione, quasi affidando alla famiglia queste righe per dire la nostra vicinanza al loro dolore e agli interrogativi che nascono, soprattutto per i più piccoli.
Non dobbiamo dimenticare due cose.
- La malattia, la sofferenza, la morte sono uno sconquasso della persona, della sua sicurezza interiore, delle sue convinzioni e anche della sua fede. Ma c’è da dire che, per quanto riguarda la fede, bisogna stare attenti al rapporto che molti stabiliscono fra sofferenza e castigo e che fa chiedere «Che male ha fatto nella sua vita per finire così?». Gesù stesso, nel Vangelo, smonta questo modo di vedere le cose. Allora, uno muore non perché viene castigato per qualcosa.
- Altro disorientamento della fede : “Perché il Signore lo ha fatto morire? insieme all’espressione “Dio l’ha chiamato a sé”, modo con cui a volte nella liturgia si indica la morte. Ma voi riuscite davvero a pensare che Dio stia su in paradiso a dire: oggi faccio morire quel giovane, domani quella mamma, dopodomani quel bambino, quel papà?”. È impensabile. Dio non fa morire per chiamare a sé, ma quando uno muore, Dio, che è il Dio della vita, non lo lascia finire nel nulla, ma lo accoglie nel suo abbraccio. Questa è la ragione per cui noi, anche nel distacco dalle persone più care, abbiamo la certezza che le ritroveremo.
Per i cristiani, anche nei lutti più atroci, lacrime amarissime e serenità di speranza stanno insieme. E, con le parole del canto della preghiera del Cre possiamo dire: ”Ogni giorno ripeti il miracolo e moltiplichi il pane per noi, fino a quando in cielo ci chiamerai a sedere alla mensa con Te...”

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letterina 20150627

Il papa ai giovani

Giuda

...Sapete che a me danno tanta tristezza al cuore i giovani che vanno in pensione a 20 anni! Sì, sono invecchiati presto… Per questo, quando Chiara faceva quella domanda sull’amore: quello che fa che un giovane non vada in pensione è la voglia di amare, la voglia di dare quello che ha di più bello l’uomo, e che ha di più bello Dio, perché la definizione che Giovanni dà di Dio è “Dio è amore”. E quando il giovane ama, vive, cresce, non va in pensione. Cresce, cresce, cresce e dà. Ma che cos’è l’amore?
“E’ la telenovela, padre? Quello che vediamo nei teleromanzi?” Alcuni pensano che sia quello l’amore. Parlare dell’amore è tanto bello, si possono dire cose belle, belle, belle. Ma l’amore ha due assi su cui si muove, e se una persona, un giovane non ha questi due assi, queste due dimensioni dell’amore, non è amore.
Prima di tutto, l’amore è più nelle opere che nelle parole: l’amore è concreto. Non è amore soltanto dire: “Io ti amo, io amo tutta la gente”. No. Cosa fai per amore? L’amore si dà. Pensate che Dio ha incominciato a parlare dell’amore quando si è coinvolto con il suo popolo, quando ha scelto il suo popolo, ha fatto alleanza con il suo popolo, ha salvato il suo popolo, ha perdonato tante volte – tanta pazienza ha Dio! –: ha fatto, ha fatto gesti di amore, opere di amore.
E la seconda dimensione, il secondo asse sul quale gira l’amore è che l’amore sempre si comunica, cioè l’amore ascolta e risponde, l’amore si fa nel dialogo, nella comunione: si comunica. L’amore non è né sordo né muto, si comunica. Queste due dimensioni sono molto utili per capire cosa è l’amore, che non è un sentimento romantico del momento o una storia, no, è concreto, è nelle opere. E si comunica, cioè è nel dialogo, sempre.

Discorso di Papa Francesco ai ragazzi e ai giovani in visita pastorale a Torino (21/6/2015)

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letterina 20150620

Scintilla d'infinito

Giuda

“Per Elisabetta si compì il tempo e diede alla luce un figlio”. Arriva Giovanni.
I figli vengono alla luce come compimento di un progetto, vengono da Dio.
Caduti da una stella nelle braccia della madre, portano con sé scintille d’infinito: gioia (e i vicini si rallegravano con la madre) e parola di Dio. Non nascono per caso, ma per profezia. Nel loro vecchio cuore i genitori sentono che il piccolo appartiene ad una storia più grande, che i figli non sono nostri: appartengono a Dio, a se stessi, alla loro vocazione, al mondo. Il genitore è solo l’arco che scocca la freccia, per farla volare lontano. Il passaggio tra i due testamenti è un tempo di silenzio: la parola, tolta al tempio e al sacerdozio, si sta intessendo nel ventre di due madri. Dio traccia la sua storia sul calendario della vita, e non nel confine stretto delle istituzioni.
Un rivoluzionario rovesciamento delle parti, il sacerdote tace ed è la donna a prendere la parola: si chiamerà Giovanni, che in ebraico significa: dono di Dio. Elisabetta ha capito che la vita, l’amore che sente fremere dentro di sé, sono un pezzetto di Dio. Che l’identità del suo bambino è di essere dono. E questa è anche l’identità profonda di noi tutti: il nome di ogni bambino è «dono perfetto». Stava la parola murata dentro, fino a quando la donna fu madre e la casa, casa di profeti. Zaccaria era rimasto muto perché non aveva creduto all’annuncio dell’angelo. Ha chiuso l’orecchio del cuore e da allora ha perso la parola. Non ha ascoltato, e ora non ha più niente da dire.
Indicazione che mi fa pensoso: quando noi credenti smarriamo il riferimento alla Parola di Dio e alla vita, diventiamo afoni, insignificanti, non mandiamo più nessun messaggio a nessuno.
Eppure il dubitare del vecchio sacerdote non ferma l’azione di Dio. Qualcosa di grande e di consolante: i miei difetti, la mia poca fede non arrestano il fiume di Dio.
Zaccaria incide il nome del figlio: «Dono-di-Dio», e subito riprende a fiorire la parola e benediceva Dio. Benedire subito, dire-bene come il Creatore all’origine (crescete e moltiplicatevi): la benedizione è una energia di vita, una forza di crescita e di nascita che scende dall’alto, ci raggiunge, ci avvolge, e ci fa vivere la vita come un debito d’amore che si estingue solo ridonando vita.

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letterina 20150613

Matrimoni. Divorziati. Comunione

Giuda

Come aiutare a capire che nessuno è escluso dalla misericordia di Dio e come esprimere questa verità nell’azione pastorale della Chiesa verso le famiglie, in particolare quelle ferite e fragili?
Questa era una delle molte domande inviate alle Diocesi come continuazione del discorso aperto al Sinodo della Famiglia. Il problema dell’ammissione dei divorziati, risposati o conviventi, ai sacramenti è tutto in quel “Come”.
Il card. Cristopher Schömborn, arcivescovo di Vienna, figlio di divorziati, alla domanda se alla fine del Sinodo si arriverà ad ammettere i divorziati alla comunione, risponde che purtroppo si vede solo il problema dei divorziati risposati. Ma non si vede il problema della famiglia più ampia, dove normalmente ci sono figli, genitori, forse ancora nonni, fratelli, sorelle, zii… Anche la questione della comunione ai divorziati risposati è una questione di comunità. La sua proposta è che, prima di chiedere se i divorziati risposati possono o meno accedere alla comunione, essi si pongano alcune domande.
Quasi un cammino penitenziale o, diciamo, un cammino di attenzione.
La prima attenzione deve essere per i figli. I genitori che fanno un cammino di penitenza devono chiedersi sempre se stanno usando i figli come ostaggi nel loro conflitto matrimoniale.
La seconda attenzione riguarda la storia del primo matrimonio. Come si può pensare di chiedere la comunione se nel cuore c’è ancora tutto il rancore per ciò che si è vissuto nel matrimonio?
C’è poi una terza attenzione. Questa la deve avere soprattutto la Chiesa. Nelle nostre comunità cristiane ci sono tante persone che mantengono la fedeltà all’ex coniuge anche dopo il divorzio, perché dicono: noi abbiamo promesso l’uno all’altro la fedeltà fino alla morte, e, anche a caro prezzo, vogliamo essere fedeli alle promesse. Che incoraggiamento dà la Chiesa a queste coppie?
Un’ultima attenzione è alla coscienza. Prima di accedere alla comunione, al di là di tutto, c’è una questione a cui ognuno deve rispondere davanti a Dio. Come mi trovo io, in coscienza, con la mia storia davanti a Dio? Questo vale naturalmente non solo per i divorziati, ma per tutti quelli che vanno a fare la Comunione.
Come si vede, il discorso dei sacramenti ai divorziati è serio e non è da prendere con faciloneria.

Liberamente tratto da Santalessandro.org

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letterina 20150606

Disgregarsi - svilirsi

Giuda

Giovedì sera abbiamo vissuto in modo intenso e con una bella partecipazione il Corpus Domini. Poco prima a Roma, papa Francesco parlava dell’Eucarestia con le parole che sono riportate sotto. Le leggiamo perché danno luce anche al nostro desiderio di camminare nell’unione e nella comunione, così come le due processioni (Burligo e Palazzago) che si sono incontrate a metà strada in un Precornelli parato a festa, hanno significato.
“Un testo molto bello della Liturgia di oggi, il Responsorio della seconda lettura dell’Ufficio delle Letture, dice così: «Riconoscete in questo pane, colui che fu crocifisso; nel calice, il sangue sgorgato dal suo fianco. Prendete e mangiate il corpo di Cristo, bevete il suo sangue: poiché ora siete membra di Cristo. Per non disgregarvi, mangiate questo vincolo di comunione; per non svilirvi, bevete il prezzo del vostro riscatto».
C’è un pericolo, c’è una minaccia: disgregarci, svilirci. Cosa significa, oggi, questo “disgregarci” e “svilirci”? Noi ci disgreghiamo quando non siamo docili alla Parola del Signore, quando non viviamo la fraternità tra di noi, quando gareggiamo per occupare i primi posti - gli arrampicatori -, quando non troviamo il coraggio di testimoniare la carità, quando non siamo capaci di offrire speranza. Così ci disgreghiamo. L’Eucaristia ci permette di non disgregarci, perché è vincolo di comunione, è compimento dell’Alleanza, segno vivente dell’amore di Cristo che si è umiliato e annientato perché noi rimanessimo uniti. Partecipando all’Eucaristia e nutrendoci di essa, noi siamo inseriti in un cammino che non ammette divisioni. Il Cristo presente in mezzo a noi, nel segno del pane e del vino, esige che la forza dell’amore superi ogni lacerazione, e al tempo stesso che diventi comunione anche con il più povero, sostegno per il debole, attenzione fraterna a quanti fanno fatica a sostenere il peso della vita quotidiana, e sono in pericolo di perdere la fede. E poi, l’altra parola: che cosa significa oggi per noi “svilirci”, ossia annacquare la nostra dignità cristiana? Significa lasciarci intaccare dalle idolatrie del nostro tempo: l’apparire, il consumare, l’io al centro di tutto; ma anche l’essere competitivi, l’arroganza come atteggiamento vincente, il non dover mai ammettere di avere sbagliato o di avere bisogno. Tutto questo ci svilisce, ci rende cristiani mediocri, tiepidi, insipidi, pagani. Gesù ha versato il suo Sangue come prezzo e come lavacro, perché fossimo purificati da tutti i peccati: per non svilirci, guardiamo a Lui, abbeveriamoci alla sua fonte, per essere preservati dal rischio della corruzione. E allora sperimenteremo la grazia di una trasformazione: noi rimarremo sempre poveri peccatori, ma il Sangue di Cristo ci libererà dai nostri peccati e ci restituirà la nostra dignità.  

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