letterina 20150530

Trinità - Relazione

Giuda

"In principio era la relazione ... ".
Inizia così una tra le opere più importanti di Martin Buber (Il principio dialogico e altri saggi - Ed. San Paolo, 1993).  
Parafrasando l'inizio del Vangelo di Giovanni, l'in-principio della nostra esistenza ha radici in un incontro: il Verbo è Parola che esce dalla bocca del Padre.
E il parlare è il primo segnale di vita in una relazione. La matrice della nostra esistenza è fissata in questa meravigliosa capacità di chiamare per nome un altro. E di sentirci chiamare con il nostro nome. Il mio io si risveglia nella misura in cui è interpellato da un tu. Nessuno di noi può vivere senza l'altro. Come Dio, che nell'incarnazione ci ha rivelato che sono Uno e Tre, cioè relazione.
A immagine e somiglianza di Dio, anche noi siamo relazione. Alternativa non c'è. Pena il non esistere. Come in Dio: il Padre è Padre perché ha il Figlio. E il Figlio è Figlio perché ha il Padre. Lo Spirito è Amore perché il Padre e il Figlio si amano. lo sono io perché ho quel padre, quella madre, quei fratelli e quelle sorelle, quegli amici e quei nemici. Sono io perché sono di questo Dio Uno e Trino. “Se tu non mi parli sono come uno che scende nella fossa" grida l'orante (Salmo 28,1).
Rimaniamo in vita con un senso delle cose perché Qualcun Altro ci parla.
Il Cristianesimo ha rivelato al mondo la bellezza del tu. È’ la religione del dialogo, della reciprocità, del riconoscimento dell'altro come regalo. E come prova.  
Il tu come presenza inevitabile. E ineliminabile.
Nel riconoscimento dell’altro come un tu da ospitare è sintetizzato  tutto il percorso di crescita che ognuno di noi è chiamato a fare. Appena nati tutto è confinato al nostro io.
Poi, dare del tu a Dio ci ha insegnato a riconoscere nel tu del fratello un dono. Il mondo intorno a noi ha sete di profezia: è possibile vivere insieme “Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati” (Ef 4,4 )
 

  Scarica qui la Lette...Rina


I MODULI per l'iscrizione di Ragazzi e Animatori al CRE 2015 sono scaricabili nell'apposita cornice qui sotto oppure nella sezione Modulistica

letterina 20150523

Un vuoto che parla

Giuda

Nel 2016 non ci saranno nuovi preti nella diocesi di Bergamo. Lo ha annunciato il Vescovo nel Consiglio presbiterale. Le ordinazioni sacerdotali rimangono, nelle nostre comunità, eventi di straordinario impatto. Le feste che si celebrano per i preti novelli sono, forse, quelle che riescono a dare meglio l'idea di Chiesa, della Chiesa concreta che è cresciuta in questa terra: «questa» Chiesa «qui». È in quell'occasione, infatti, che la gente di un paese si trova tutta per far festa all'amico diventato prete, tutti diversamente motivati per vivere quell'evento. Mai come in quella occasione la Chiesa è variegata e unita insieme.
Nel 2016: niente. Come sempre, la mancanza di parola parla. Anche questo vuoto parlerà moltissimo l'anno prossimo, ma comincia a parlare forte già adesso. E che cosa dice? Tante cose, naturalmente.
Intanto, la Chiesa è più povera e non di soldi e di strutture, ma di gente, di gente in genere e di questo particolare genere di gente che sono i preti.
Ora, è la gente che fa essere la Chiesa precisamente quello che è: «Chiesa di mattoni no, Chiesa di persone, sì», dice una canzone popolare che si canta nelle nostre chiese. Anzi, la prima cosa che balza agli occhi è proprio questa relativa povertà di persone - preti, religiosi, laici - e questa eccessiva ricchezza di strutture: chiese, oratori, case parrocchiali, case di riposo, scuole, case di vacanza, cinema ... e tanto altro. Non che quelle strutture fossero o siano un lusso inutile, certamente no. Erano i molti mattoni diventati necessari per le molte persone. Ma adesso che le persone sono di meno, i mattoni sono rimasti quelli dei tempi dell'abbondanza e appaiono ancora di più di quello che sono.
In questa situazione la Chiesa - per essere precisi: le singole Chiese, le parrocchie, le comunità cristiane locali - devono iniziare una difficile, necessaria «rieducazione». Quando i cristiani erano molti, bastavano pochi convinti perché si facesse almeno il necessario. Quando si è pochi, diventano necessari quasi tutti. In altre parole: una Chiesa diventata piccola o è più Chiesa o non è. Questo vale soprattutto in rapporto alle figure dei preti che, appunto, dopo essere diminuiti, adesso danno perfino l'impressione di non esserci più (questo è infatti il senso un po' straniante di un anno senza preti, come si annuncia essere il prossimo 2016).
Di fronte a una situazione così drastica si impone un'altrettanto drastica verità: le comunità cristiane potranno sopravvivere, se impareranno a fare a meno dei preti.
Inutile precisare che non è che si vuole fare a meno dei preti, ma che si deve. Per fare a meno dei preti, però, i primi a darsi da fare devono essere i preti. «Fare a meno» è un po' forte, ma dà l'idea (per la verità la storia di Chiese locali, lontane da noi: Corea, India riferisce di intere comunità cristiane che hanno conservato la fede, anche per secoli, senza preti).
È un po' forte l'espressione, dunque, ma non è peregrina. Si parla spesso del prete «padre», della paternità del prete e così via. Bene: tutti sanno che un buon padre è quello che sa crescere dei figli maturi, cioè dei figli che non hanno più bisogno di lui. Il buon padre, detto con parole un po' brusche, sa anche "morire". Proprio perché è padre, infatti, è contento della vita che ha dato agli altri, non di quella che ha trattenuto per sé. Dunque, mentre la Chiesa di Bergamo sta diventando povera di preti, potrebbe imparare, grazie anche all'azione dei molti preti generosi e capaci che ci sono, a essere ricca di tutto il resto.
E sarebbe, se la cosa, almeno un po', riuscisse, una straordinaria forma di rinascita.

don Alberto Carrara 

  Scarica qui la Lette...Rina


I MODULI per l'iscrizione di Ragazzi e Animatori al CRE 2015 sono scaricabili nell'apposita cornice qui sotto oppure nella sezione Modulistica

letterina 20150516

Dentro e fuori il matrimonio

Giuda

Alberto Melloni ha presentato al pubblico bergamasco un suo libretto «Amore senza fine, amore senza fini». Una delle tesi del libro è la constatazione di un singolare intreccio: chi è nel matrimonio o intende entrarci rivendica la libertà di poterne uscire, e chi ne è escluso rivendica il diritto di poterci entrare.
In nome della «libertà di uscita» divorzi e convivenze, soprattutto.
Nel nome del diritto di entrarci gli omosessuali chiedono matrimonio e figli.
Al centro, dunque, dello strabiliante dibattito, l’istituzione, e questa istituzione, soprattutto: il matrimonio da rivendicare, da una parte, o da rifiutare, dall’altra. Lo stesso Melloni cita la frase di un prete che, nel suo piccolo, ha fatto storia. “Va proprio male, dice sconsolato il reverendo all’amico che gli ha chiesto come va, oggi si vogliono far prete solo le donne, vogliono far figli solo quelli che non possono averne, e vogliono sposarsi solo le persone omosessuali”. A questo punto due possibili, tra le tante altre, ipotesi.
Ipotesi uno, pessimista. Molto grosso modo, la tesi sostiene che le istituzioni hanno il compito di fare da ingranaggio alle diversità che segnano la convivenza umana. La diversità uomo-donna è una delle diversità fondamentali ma è anche in crisi. Intanto quella diversità è meno diversa di un tempo. In Olanda il sesso lo si sceglie dopo i 15 anni di età. E lo si sceglie, appunto, a prescindere dal retaggio fisico di cui si dispone. Ma soprattutto quella diversità la si gestisce con un amore senza fine e non con una istituzione che gli dia consistenza, amore con troppi fini che gli pesano sopra.
Ipotesi due. Ottimista o meglio: meno pessimista. È finito il sogno di una istituzione che tutti accettano e che fa da regolatore generale dei rapporti fra l’uomo e la donna. Ma se è in crisi l’istituzione non è finito l’amore. Anche chi non si sposa e convive si ama. Elementare Watson, ma è bene che lo si ricordi. Anche chi divorzia e si risposa continua ad amare.
Intanto, però, in questa generale disaffezione come sono preziosi i matrimoni – pochi ma belli – di chi non solo si ama, ma si ama davanti al Signore in questa istituzione: il matrimonio e ci rimane, per tutta la vita. Meno ci si sposa, infatti, più sono benedetti e diventano profeti, quei pochi che si sposano.

don Alberto Carrara 

  Scarica qui la Lette...Rina


I MODULI per l'iscrizione di Ragazzi e Animatori al CRE 2015 sono scaricabili nell'apposita cornice qui sotto

letterina 20150509

Chi lo sa?

Giuda

Stamattina sono passato a Milano in Duomo. Ero fermo un attimo a pregare davanti al crocifisso quando una ragazza si fa largo tra le persone, tira fuori il suo smartphone e si fa un bel selfie con il crocifisso. Al momento la cosa mi ha un po' infastidito e ha suscitato in me alcune scontate reazioni: che senso ha un selfie col crocifisso? Ok il turismo, ma serve un po' di rispetto! Ma lo sa quella ragazza il significato della croce? Un po' quelle stesse domande che mi pongo quando incontro uno di quei tamarretti, tutto fumo, motorino e bestemmie, che però immancabilmente hanno al collo il catenozzo col crocifisso.
Arrivato a questo punto del mio fastidio mi sono però bloccato. Ho alzato lo sguardo per un istante e ho smascherato in me uno spirito decisamente lontano dal vangelo: quella innata tendenza cioè a giudicare, a incasellare una persona dentro i miei schemi, a fermarmi alle apparenze senza considerare che Dio si serve di ogni strada per arrivare alle persone. E mi sono detto: guarda un po', questa ragazza si è portata a casa una foto di lei col crocifisso! Non so nulla di questa persona. Non lo so se va tutte le domeniche a Messa, se invece è decisamente lontana dalla fede. So di certo però che, come ogni uomo, sarà presa tra gli affanni della vita, sarà sballottata di qua e di là, tra una spesa da fare, un autobus da prendere, un modulo da compilare. Sarà felice per quel successo, sarà turbata da quella delusione, piangerà lacrime di gioia e griderà aiuto nel momento del dolore. E chi lo sa se un giorno, in mezzo a tutto questo, dall'archivio del suo smartphone salterà fuori una foto di tanti anni prima, una foto in cui c'è lei con un sorriso e dietro a lei un crocifisso che l'abbraccia. Chi lo sa se proprio davanti a quella foto, in mezzo alla sua vita, questa donna comprenderà una verità immensa: che la sua vita, da sempre, è amata in modo sublime, è amata a tal punto che qualcuno è arrivato a morire per lei.
Chi lo sa se davanti a quella foto, troverà il coraggio di girarsi e guardare in faccia quel crocifisso, perché a penetrare i suoi occhi non sia più la camera narcisista del suo smartphone, ma quello sguardo eterno che dona vita.
Mi alzo per tornarmene verso casa e di certo per strada incontrerò i tamarretti di cui sopra. Chissà che anche il loro crocifisso al collo non sia un seme gettato da un Dio che, lontano dai nostri schemi, agisce e arriva dove lui solo sa.

Gabriele C.

 

  Scarica qui la Lette...Rina

letterina 20150502

Non ci è permesso vivere spensieratamente

Giuda

Le notizie che arrivano dal Nepal stanno seguendo le modalità abituali in eventi del genere.
All’inizio erano alcune decine di morti, poi alcune centinaia. Adesso si parla di diecimila vittime. Non solo le vittime ma anche l’incomparabile patrimonio artistico è stato gravemente compromesso.
Il dramma del Nepal rispetta dunque una componente importante di un dramma che si rispetta: il crescendo... Con un paio di osservazioni, scontate forse, ma importanti. Nei nostri notiziari arrivano soprattutto le notizie “cattive”. Pochi parlavano finora del Nepal, a parte qualche eccezione, di tanto in tanto, e qualche reportage turistico, qualche scalata sull’Himalaya. Non se parlava, perché, abitualmente, non c’erano motivi particolari per parlarne. Adesso, invece, tutti ne parlano...
Succede quasi sempre così, per i paesi lontani e per quelli vicini e anche per le notizie di casa nostra. Il mondo che ci viene proposto è soprattutto – non esclusivamente s’intende, ma soprattutto – il mondo della violenza, della sofferenza, della tragedia. Intanto però ci si accorge che non esistono isole felici nelle quali ci si possa vivere senza preoccupazioni e senza ansie. Perché bisognerebbe vivere senza notizie e le notizie, che lo si voglia o no, ci inseguono. E quando non sono le notizie che inseguono noi, siamo noi che inseguiamo le notizie, perché dovunque siamo, il sito di un giornale amico lo possiamo consultare sempre.
Donde deriva una conseguenza morale che anche questo disastro ribadisce: non solo non si può vivere da soli, ma la piccola nostra felicità personale deve fare i conti quotidianamente con la grande infelicità collettiva. E da questa parte del mondo si deve prendere atto che molta gente muore per il lontano terremoto mentre qui, più vicino, gli immigrati continuano ad arrivare. A proposito: quanti ne sono arrivati in questi giorni? Non si sa. Ma non si sa semplicemente perché altre notizie premono e i drammi di Lampedusa sono meno gravi dei drammi di Katmandu. Ma lasciamo passare qualche giorno e si tornerà a parlarne: alla pagode sbriciolate si sostituiranno i barconi arrugginiti degli immigrati libici ed eritrei.
Davvero non ci è permesso – non ci è mai permesso – di vivere spensieratamente.

Da: www.santalessandro.org

 

  Scarica qui la Lette...Rina

letterina 20150424

2 barra 3

Giuda

Non so se vi siete accorti: è sempre più diffuso un modo di esprimersi : barra.
Vuoi essere snob, cool, in, trandy, easy? Allora non dire più: “ho 2 o 3 cose da fare” ma “ho 2 barra 3 cose da fare”; non si senta più: “ci vediamo tra 5 o 10 minuti” ma “tra 5 barra 10 minuti” e così tutto: 1 barra 2 figli, 2 barra 3 amanti, 3 barra 4 amici... Si direbbe che stare al computer molte ore digitando la barra, abbia influenzato il modo di parlare.
Normalmente, nel linguaggio verbale, si tende a semplificare le parole, tant’è vero che si abbreviano anche i nomi propri. Chiedetelo agli ado (che sta per adolescenti), se non è vero. Qui si assiste invece all’esatto contrario: li si allunga. E’ così bella quella O (una lettera) e invece oggi bisogna dire BARRA (cinque lettere). A forza di barra si corre il rischio di uniformare tutto, anche i numeri, con i quali sempre più abbiamo a che fare nei tiggì (telegiornali): del resto cosa cambia se i cristiani uccisi in Kenya sono 147 barra 150, se quelli buttati a mare sono 15 barra 20, se il carico umano stipato sui barconi era di 700 barra 900 profughi?
A forza di barra si perdono i volti, le storie. E ne basterebbe uno (neanche 1 barra 2) a far sussultare le coscienze intorpidite.
L’appello che si alza da queste storie è uno solo: non guardateci come numeri, non accorpateci come un mucchio indistinto, non fate di noi una statistica. Ciascuno di noi è un nome e una storia, una vita e dei sentimenti, delle speranze e delle relazioni. Del resto se in quella barra ci fosse tuo figlio, tua moglie, tuo marito..., come cambierebbe la storia? E ciascuno di noi vi rende presenti altri volti e altri nomi, altre storie, più vicine a voi, più simili al vostro quotidiano, volti e storie che magari non volete guardare in faccia. Non considerate mai l’altro come un numero o, peggio, come un soprannumero: l’altro è sempre una persona, una storia, un capolavoro. Sì, nel volto dell’altro, se accettiamo di guardarlo, c’è il nostro volto, perché l’altro siamo noi.
Chissà se tutti quelli che vengono in chiesa le pensano queste cose, magari anche quando fanno la Comunione...

 

  Scarica qui la Lette...Rina