letterina 20100109

L'affondo

Senza visto

Molti dei suoi primi prodigi erano scherzi di bambini che giocavano a fare i dottori, a salvare la natura curando d’improvviso  lebbre e storpiature.  Erano miracoli, ma non colossali, non inceppò la macchina del cielo come Giosuè che fermò il sole in Gabaòn e la luna sulla valle di Aialòn. Non aprì le acque come Mosè, ma ci camminò sopra senza bagnarsi. Non creò il frutto della vite, ma seppe provvedere, in una festa, a vendemmiare vino dall’acqua. Non creò il sole, il fuoco, né luna, né stelle già create, ma diede vista ai ciechi e questo è un modo di inventare la luce. Non ebbe figli, non procurò una sua discendenza, ma litigò con sua sorella morte e le strappò di mano un corpo già in sepolcro, riportandolo indietro a rivivere, certo, ma anche a rimorire. Fu battezzato in acqua dolce, amò la pesca, frequentò pescatori, ne riempì le reti, placò le ondate di una tempesta sul lago di Tiberiade, che  suoi chiamano Mare di Cetra. Delle scritture sacre preferì Isaia; di Davide gustò più i salmi che le imprese. Discendeva da lui, così vuole la legge del messia. Chiese all’offeso di esporre l’altra guancia, mettendo l’offensore al rischio del ridicolo, ma pure stabilendo un termine alla prova: in numero di due, non più, sono le guance. Non scrisse, non dettò: le sue parole facevano il viaggio delle api sopra i petali aperti delle orecchie. Salvò una donna dalla condanna di lapidazione, chiedendo ai suoi accusatori che il primo di loro, se puro dai peccati, si facesse avanti con la prima pietra. Sapeva che gli uomini tirano volentieri le seconde. Diverse
donne lo seguivano di luogo in luogo alla pari degli apostoli. Non pretese astinenze, il celibato venne dopo, a chiese fatte. Sudò sangue, morì con tutto il corpo resistendo alla morte con nervi, fiato, febbre, piaghe, mosche intorno all’agonia. Resuscitò per intero, carne, ossa e promessa di essere solo il primo dei destinati alla resurrezione. Nascesse oggi, sarebbe in una barca di immigrati, gettato  a mare insieme alla madre in vista delle coste di Puglia o di Calabria. Forse continua a nascere così, senza sopravvivere, e il venticinque dicembre è solo il più celebre dei suoi compleanni. Dopo di lui nessuno è residente, ma tutti ospiti in attesa di un visto. Siamo noi, pasciuti di occidente, la colonna di stranieri in fila fuori all’ultimo sportello.

ERRI DE LUCA

 

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letterina 20100102

L'affondo

Il mandorlo e il nespolo

Pesanti gocce d’acqua sopra i rami, il prato controvento nella brina, l’erba tenta una crescita e, fra un po’, si sveglierà alla luce. Fa freddo, eppure senti primavera nell’alba che ti rende pronto alla realtà di ogni attimo. Il profeta Geremia non sa spiegare ai suoi contemporanei la tragedia di distruzione, di deportazione e di sfruttamento che il suo popolo vive. Dio gli dice:"Cosa vedi?" "Un ramo di mandorlo" risponde. "Hai visto bene perché io vigilo affinché si realizzi tutto quel che dico". C’è un gioco di parole nel nome del mandorlo in ebraico shaked e soked che significa vigilare, essere attenti.
E’ tempo di carestia e di crisi, ma mi è chiesto di guardare nel giardino, osservare il mandorlo e attendere la sua fioritura precoce e sentire il profumo del nespolo che inizia a novembre e termina a febbraio.
In questo inverno di aridità, in questo arido furore che impedisce al nostro cuore di reagire a un profumo, il mandorlo e il nespolo sono fragili ali su deserti, piccoli semi di speranza sul disperare umano.
Il ramo di mandorlo mi indica che fuori delle secche della rassegnazione devo farmi umile cercatore di segni di speranza, di tentativi, di ridare tensione di vento alle vele ammainate.
La vigilanza è la presa di coscienza dell’interno e silenzioso cammino, è l’accettazione del proprio personale compito nella nostra avventura.
La vigilanza è un lavoro di svuotamento per conservare qualcosa, gli si deve far spazio intorno affinché il nostro io si faccia desiderio e bisogno nella profondità complessa che abbiamo dentro. Invece di maledire il buoi, ringrazio di avere accanto in questo inverno il mandorlo e il profumo del nespolo, segni che mi gridano forte che nessun sentiero è chiuso nella propria polvere.
A questi due pellegrini di senso, chiedo una quieta e intelligente attenzione.
Spesso mi sento come un albero d’inverno, dentro brucio come il fuoco. Una profonda malinconia contenta, fino a sentirmi commosso nello scoprire che il mondo non può esistere senza questi miracoli e che è pur sempre un prodigio sperare.                                      

Da Luigi Verdi: Il mandorlo

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letterina 20091226

L'affondo

Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato

1. In occasione dell’inizio del Nuovo Anno, desidero rivolgere i più fervidi auguri di pace a tutte le comunità cristiane, ai responsabili delle Nazioni, agli uomini e alle donne di buona volontà del mondo intero. Per questa XLIII Giornata Mondiale della Pace ho scelto il tema: Se  vuoi coltivare la pace, custodisci il creato. Il rispetto del creato riveste grande rilevanza, anche perché «la creazione è l’inizio e il fondamento di tutte le opere di Dio» [1] e la sua salvaguardia diventa oggi essenziale per la pacifica convivenza dell’umanità. Se, infatti, a causa della crudeltà dell’uomo sull’uomo, numerose sono le minacce che incombono sulla pace e sull’autentico sviluppo umano integrale - guerre, conflitti internazionali e regionali, atti terroristici e violazioni dei diritti umani -, non meno preoccupanti sono le minacce originate dalla noncuranza - se non addirittura dall’abuso - nei confronti della terra e dei beni naturali che Dio ha elargito. Per tale motivo è indispensabile che l’umanità rinnovi e rafforzi «quell’alleanza tra essere umano e ambiente, che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino»

2. Nell’Enciclica Caritas in veritate ho posto in evidenza che lo sviluppo umano integrale è strettamente collegato ai doveri derivanti dal  rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale, considerato come un dono di Dio a tutti, il cui uso comporta una comune responsabilità verso l’umanità intera, in special modo verso i poveri e le generazioni future. Ho notato, inoltre, che quando la natura e, in primo luogo, l’essere umano vengono considerati semplicemente frutto del caso o del determinismo evolutivo, rischia di attenuarsi nelle coscienze la consapevolezza della responsabilità [3]. Ritenere, invece, il creato come dono di Dio all’umanità ci aiuta a comprendere la vocazione e il valore dell’uomo. Con il Salmista, pieni di stupore, possiamo infatti proclamare: «Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il
figlio dell’uomo, perché te ne curi?» (Sal  8,4-5). Contemplare la bellezza del creato è stimolo a riconoscere l’amore del Creatore, quell’Amore che «move il sole e l’altre stelle» [4].


Dal Messaggio di Benedetto XVI per la XLIII Giornata mondiale della pace


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letterina 20091219

L'affondo

Ero Cras

"Ero cras", "Ci sarò domani":è una promessa molto antica, risalente ai tempi di Gregorio Magno, e nascosta tra le righe di sette antifone che tradizionalmente accompagnano l’ultima settimana di Avvento. "O Sapientia", comincia la prima, e le successive: "O Adonai, O Radix, O Clavis, O Oriens, O Rex, O Emmanuel". Germoglio, Chiave, Re, Emmanuele: tutte le antifone iniziano con un’invocazione a Cristo. Ma capovolgendo l’ordine delle parole e prendendo di ciascuna la lettera iniziale, emerge l’acronimo "Ero cras", "Ci sarò domani". Non è enigmistica. Ogni antifona è una sintesi di passi dell’Antico e Nuovo Testamento, un concentrato di fede cristiana che gli antichi fedeli ripetevano nella penombra dei vespri dell’Avvento, quando la notte calata sulle brevi giornate d’inverno, rischiarato solo da candele, evocava un’altra ombra, che incuteva timore. Dalle buie sere che precedono il solstizio, dal colmo dell’oscurità, nelle chiese si invocava: Germoglio, Sapienza, Re, vieni a liberarci dalla tenebre. E nella quinta antifona, quella del 21 dicembre - giorno esatto del solstizio, in cui, toccato il vertice del buio, il sole comincia a risalire in cielo - si cantava: "O Oriens, splendor lucis aeternae et Sol Iustitiae: veni et illumina sedentem in tenebris et umbra mortis"; "O astro che sorgi, splendore di luce eterna e sole di giustizia: vieni, illumina chi giace nelle tenebre e nell’ombra della morte". E infine, nascosta nelle iniziali delle prime parole delle antifone: "Ero cras". Ci sarò domani, ci sarò sempre: nel fondo del buio, di generazione in generazione, il ripetersi di una promessa di luce.   E noi? ti viene da domandarti. L’attesa che colma questi antichi canti d’Avvento, ci appartiene ancora? O, sfumata la memoria di un male originario che ci opprime, non percepiamo più davvero il buio che nelle antifone del tempo di Gregorio Magno pare così incombente, tanto che è evidente come quei versi anelano la luce? Non più pienamente coscienti del buio, sappiamo ancora desiderare la luce? La nascita di Cristo, nel colmo dell’inverno, è il venire al mondo di colui che vince la morte. Ce ne ricordiamo pienamente, noi credenti del 2009 (ndr), pressati negli ipermercati in cui infuria "Jingle bells", o angosciati dalla crisi e dal vacillare del nostro benessere? Che la promessa antica e segreta delle "antifone O", l’augurio, ci accompagni nel nostro affannarci della vigilia del Natale. "Ero cras", ci sarò domani e sempre. E grazie al dotto studioso che ha ricordato a noi credenti analfabeti un segreto tesoro, a illuminare questi giorni di buio.   

di Marina Corradi

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letterina 20091212

L'affondo

Di inizio in inizio

Pensavamo che il Vangelo avrebbe cambiato il mondo, che l’avrebbe capovolto, e invece siamo qui con guerre dimenticate, con odio esibito, con Abele sempre ucciso, e la bambina speranza è ancora vestita di stracci. Eppure non ci arrendiamo. Il Vangelo non ha ancora trasfigurato la storia, eppure riprendiamo testardi a tessere un filo di luce, un filo da aggiungere alla trama così breve e così fragile dei giorni dell’uomo.
Ho ricevuto un messaggio d’auguri da un amico:" Passare splendendo per un istante anche se nessuno guarda il tuo lucente sguardo".
Una madre ha atteso tutta la notte e il figlio non è guarito; una sposa ha pianto per giorni e giorni e il marito non è tornato. La ninfea è fiorita nello stagno e nessuno l’ha vista; un fiore è sbocciato nel bosco e nessuno ne ha gustato il profumo; un usignolo ha cantato nel buio incurante se qualcuno lo ascoltava; un monaco ha pregato lungo la notte anche se nessuno lo saprà mai. Essi stanno confezionando l’abito da sposa della nostra terra. Il loro lavoro non è arrivare o raccogliere, ma partire ogni giorno, seminare a ogni stagione. Mi dà forza questo scialo di bellezza e di speranza, e la sommessa bontà delle cose. Io credo alla primavera dei cuori, l’unica che non è questione di clima o di stagioni. La primavera dei cuori è un’operazione ardita.
Ogni pratolina, ogni margherita per sorridere lì in mezzo al prato, contenta dei suoi colori, ha dovuto attraversare notti e deserti, ha dovuto ingaggiare battaglie senza pietà. La primavera dei cuori libera le possibilità. Per guarire non c’è niente come perdere la propria vita di sempre, quella con lo stesso volto di sempre, scommettendo sulla novità che ci abita, sulla virtù degli inizi.
Fiorire, dunque. Fiorire è profonda responsabilità.

"Fiorire è il fine... Colmare il bocciolo, combattere il verme, ottenere quanta rugiada gli spetta, regolare il calore, eludere il vento, sfuggire all’ape ladruncola, non deludere la natura grande che l’attende proprio quel giorno.
Essere un fiore è profonda responsabilità." (E. Dickinson)

Ermes Ronchi

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letterina 20091205

L'affondo

Maria porta della speranza

La delicatissima antifona che si canta ai vespri nella memoria dei Santi Gioacchino ed Anna, così parla di Maria:" Dalla nobile stirpe di Jesse è spuntato un grazioso virgulto, sul quale è sbocciato un fiore stupendamente profumato".
Nacque, infatti con Maria, la pianticella della speranza che avrebbe finalmente dato il fiore della promessa, quella seminata nel cuore di Abramo e di tutta la sua discendenza.
E poiché la speranza era la piccola sorella della fede che guardava con occhi ridenti il futuro, Maria venne nel mondo come una splendida aurora che annuncia il giorno della Salvezza.
Anche se il mondo allora non se ne accorse e ancora oggi, in molti luoghi, sembra ignorarlo, quella nascita a Nazaret di Galilea cambiò l’aspetto dell’universo: gli recò una luce nuova, un’immacolata trasparenza che rendeva più dolce a Dio il discendere sul pianeta terra per stabilirvi la sua dimora.
Sulla speranza si è facilmente tentati di fare poesia, ma in realtà questa virtù teologale è caratteristica dei forti, di coloro che attraversano i flutti tempestosi della storia e dell’umana esistenza stando "disperatamenta" al timone della navicella e puntando lo sguardo nella notte fonda, finchè appaia una piccola luce, anche una sola fra cumuli di nubi persistenti.
Proprio con l’immagine della "stella mattutina", la Chiesa saluta la santa Vergine volgendo a lei lo sguardo, poiché "la Madre di Gesù, come in cielo, glorificata ormai nel corpo e nell’anima, è immagine e inizio della Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell’età futura, così sulla terra brilla ora innanzi al peregrinante popolo di Dio quale segno di sicura speranza e di consolazione, fino a quando non verrà il giorno del Signore" (Lumen gentium 68).
Colei che è già nella gloria del cielo e che noi contempliamo come fulgido segno di speranza, è stata come noi pellegrina sulla terra e ha consumato i suoi piedi camminando su aspri sentieri, ha consumato il suo cuore in giorni e notti pieni di umani struggimenti e di angosce. Ma non poteva fare a meno, nella sua normale esistenza quotidiana, di vedere il senso della propria vita in relazione alla persona del figlio; cresceva nella speranza vivendo da vera povera, che poteva contare soltanto su Dio, sull’Onnipotente che le aveva dato quell’unico Figlio di grazia.

Anna Maria Canopi

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