letterina 20190428

Sei felice?

Sei felice? Abbastanza. A momenti. Rispondere «sempre» sembra impossibile.
Alla prova dei fatti la nostra costitutiva fragilità rende la meta quasi irraggiungibile: essere limitati e mancanti sembra incompatibile con la piena felicità.
Siamo quindi a un bivio.
Da un lato c’è la via in salita che trasforma la mancanza in inventiva: il culto, la politica, l’arte, la scienza, il lavoro, e tutto ciò che l’uomo crea proprio perché la felicità gli manca. I Greci imboccarono questa via e della sofferenza fecero un cammino. Non la rimossero, ma la trasformarono in occasione: non fuggirono in un mondo in cui morte e dolore non esistono, anzi ne fecero la scuola dell’arte di vivere.
Dall’altro lato c’è una via in discesa che rifiuta la vita così com’è o ne fa un alibi per disimpegnarsi. La mancanza non è vita e va rimossa, la sofferenza non serve a nulla, il limite non può diventare ricerca. Fontana tagliava le tele per ricordarci che abbiamo ferite-feritoie da tenere aperte per affacciarci sulla realtà, ma noi corriamo a chiuderle e cancelliamo le cicatrici con un photoshop mentale. Fatemi gioire: happy hour, happy meal, happy pills...
Le più grandi scoperte e opere umane sono il frutto di un’eroica fiducia nel desiderio, nella mancanza, nella sconfitta: Dante, Dostoevskij... Lo dice così il poeta Zagaevskij in Venerdì Santo:

«Ho ascoltato la Passione secondo Matteo
che tramuta in bellezza il dolore.
Ho letto Fuga di morte di Celan
che tramuta in bellezza il dolore.
Nei corridoi del metrò il dolore non si tramuta,
solo perdura, senza tregua».

Esiste un’arte di vivere capace di mutare in bellezza anche il dolore del metrò, quello senza tregua e di ogni giorno?
Esiste una felicità compatibile con la fragilità?
Una luce viene ...dall’uovo di Pasqua. Questo simbolo di vita nuova è però il frutto degli spigoli della Croce. Quando l’apostolo Tommaso, assente all’apparizione del Risorto, dice agli altri che crederà solo se potrà mettere il dito nelle ferite di Cristo, chiede l’essenziale: è veramente felice solo una vita che non ignora il dolore, la sconfitta, la morte, ma che li attraversa e supera, mostrandone, appunto, le credenziali. Tommaso vuole la garanzia che il Risorto sia proprio il Crocifisso. Noi oggi abbiamo rimosso la Croce, prima che dalle pareti, dalla vita: l’imperativo di una felicità fatta di ciò che è definito «vincente» è incompatibile con la sconfitta. Ma «prendere» - come dice Cristo - «la croce di ogni giorno» significa innanzitutto imparare a dare un significato alla vita tutta intera, ad ogni suo aspetto: anche al dolore dei corridoi del metrò.
La sofferenza, per l’etica del successo come imperativo, è luogo di disperazione e va eliminata. Per un’arte di vivere integrale, invece, la sconfitta diventa un prezioso luogo di verità, ricerca, iniziativa.
Prendere la croce di ogni giorno non significa desiderare il dolore, ma riuscire a trasformare in bellezza il limite di quel giorno: è la sola via che libera dal risentimento e dalla paura che paralizzano le energie creative, l’inventiva e l’azione.

 

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