Babele e Pentecoste
La Pentecoste cristiana prende nome e tempi da quella ebraica. Gli ebrei celebravano la Pentecoste cinquanta giorni dopo la Pasqua, chiamata anche “festa delle settimane” o “festa delle primizie”, perché cadeva sette settimane dopo l’inizio della mietitura. Si trattava, dunque, di una festa agricola durante la quale si offrivano a Dio le primizie del raccolto, come ringraziamento che si trasformò in una commemorazione dell’alleanza, della Torah, della legge santa donata da Dio a Israele.
La Pentecoste era l’occasione di un grande afflusso di gente che arrivava a Gerusalemme da tutti i paesi del Mediterraneo. Luca descrive l’effusione dello Spirito con immagini che ricordano la manifestazione di Dio che, sul Sinai, chiama Mosè per mandarlo a liberare Israele dall’Egitto: è fuoco, vento e anche lingua che conferisce la forza di parlare. I molti giudei praticanti e simpatizzanti che si sono recati a Gerusalemme per le festività, nonostante le loro differenze e nonostante le loro diverse lingue, capiscono tutti il messaggio annunciato dagli Apostoli. I commentatori sono d’accordo: Luca racconta la Pentecoste come evento antitetico rispetto a Babele. A Babele gli uomini prendono l’iniziativa e “salgono” verso Dio con la loro torre; Dio scende e scompiglia l’unica lingua fino ad allora parlata dagli umani. A Pentecoste è Dio che prende l’iniziativa, scende sugli uomini e le molte lingue non sono più un ostacolo all’ascolto delle meraviglie operate da Dio e annunciate dagli Apostoli. È il fascino di Pentecoste. La quale non è un ritorno a Babele, dunque, ma un suo superamento. Non si torna all’unica lingua uguale per tutti. Le diverse lingue restano ma non dividono più e non sono più un ostacolo all’ascolto della bella notizia.
Non è fuori luogo pensare, mi sembra, che oggi, tra di noi, sta tornando lo spirito di Babele. Alle diversità sempre più stridenti e sempre più ravvicinate si oppone un desiderio violento di unità. Alcuni osservatori fanno notare che, di solito, quando si impone dall’alto una visione unitaria, fino gli estremi folli delle dittature, si precipita inevitabilmente verso la guerra. Qualcosa di simile si può dire anche della Chiesa. Se si abbraccia un’idea uniforme di unità, la Chiesa si spacca. Spesso le grandi divisioni dentro la comunità sono figlie di una concezione uniforme e autoritaria della Chiesa.
Ma qualcosa di simile si può dire anche di un’esperienza totalmente diversa, quella della coppia. La coppia felice è quella che sa accettare tutte le diversità, a cominciare da quella sessuale, con tutto quello che ne deriva: che non è solo corpo, ma psicologia, sensibilità, caratteristiche personali, educazione ricevuta... La coppia felice sa accettare e valorizzare tutte quelle differenza. La coppia felice è una coppia pentecostale. Al contrario i molti femminicidi di cui ci parla quotidianamente la cronaca nera, sono quasi sempre il risultato di una visione distorta che non sa accettare la donna come “altra”, “diversa”. Invece di accettare quella diversità si impone la propria uniformità. Si potrebbe dire che il femminicidio è un assassinio tipico di Babele, della città compaginata dove tutti devono essere uguali a tutti. E si potrebbe aggiungere dunque che, se Babele fa morire, Pentecoste fa vivere.