Il rombo di una moto
Durante i funerali di Marco Simoncelli, in chiesa è stato fatto rombare il motore della sua moto». Perché l'han fatto? La risposta l'aveva in qualche modo già data lui stesso: «Si vive di più andando cinque minuti al massimo su una moto come questa, di quanto faccia certa gente in una vita intera». Ma il ruggito di quel motore era il ruggito della morte stessa: non gesto di vitalità, di potenza, di gloria ma drammatico segno di un potere che uccide l'eroe e gli fa sopravvivere le cose che ha posseduto o l'hanno posseduto. Ciò che è avvenuto nel paesino del giovane campione romagnolo dice molto del rapporto che oggi si ha con la morte: rapporto di arroganza, sventatezza e sfida che in troppi lanciano all'avversario più forte, come se solo il gesto estremo, folle e temerario potesse riscattare e nobilitare la sorte già segnata. Rapporto di gioco, persino di scherno come dimostra il fenomeno di halloween e dintorni, nel tentativo di prendersi una qualche rivincita su colei che è destinata a vincere sempre la partita della vita. Rapporto di oblio con il corpo incenerito disperso nella natura, nel tentativo di auto convincersi che in fondo non si muore, ma ci si trasmuta in altro. Rapporto infine di illusione e di finzione, con ragionamenti così logici da riuscire a negare persino l'evidenza: «La morte non esiste, perché quando c'è lei, non ci sono io e quando ci sono io, lei non c'è». Da un articolo di don Davide Rota |
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