Tornare da Laggiù è una cosa. Accettare di esserci stato e di esserne tornato è un’altra. Dopo aver esaurito la mia sofferenza e aver tirato via un bel po’ di croste dalle cicatrici della mia anima, dopo aver rabbiosamente acconsentito ad amare – malgrado tutto – la mia memoria, dopo aver accettato il mio posto nella Tenuta – un posto che sia mio, non quello dell’ultimo degli operai -, tutto si è messo a parlare di mio Padre: la prima fioritura dei mandorli in primavera, il bicchiere d’acqua fresca, il gusto della verdura nel piatto fumante, e persino quella strada troppo nuova che mio fratello aveva tracciato attraverso i boschetti, per facilita-re la sua gestione della Tenuta. Anche quello che mio fratello faceva contro l’i-potetica volontà di mio Padre mi parlava ancora – chiaro e forte – di quest’ulti-mo. Mio Padre aveva allentato la presa, il che mi appariva ancor più chiara-mente come uno dei segni più certi del suo amore per noi. Anche se non lascia-va praticamente più la sua stanza, parlava in trasparenza mediante il colore del cielo, il gusto delle susine, il rumore del vento sul tetto della mia capanna, l’oro della polvere che danzava nella stanza quando un raggio di luce vi s’invitava… Il giorno in cui mi sono reso conto di questo, ho capito meglio la radicale soffe-renza dei giorni vissuti Laggiù. In pratica, ero assente a me stesso. Anche se il vino aveva un gusto e la pelle degli altri un calore, non mi pareva <<parlavano>>, non mi <<dicevano>> niente, là, nel profondo, in quel postici-no segreto dove si cerca di essere se stessi… E dire che ero partito per essere me stesso. Lontano da quel Padre che credevo troppo presente. Lontano da quel Padre la cui presenza mi impediva di essere. Che ingenuo che ero! Non siamo noi stessi, se non quando lasciamo maturare in noi tutto ciò che parla di Colui che ci ha fatti. Tutto il resto non è che insostenibile solitudine.
Guy Luisier: Diario del Figlio prodigo. Vent’anni dopo
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