Una Chiesa martire

Una Chiesa martire

Mentre camminiamo verso la Pasqua intrecciando la parola di Dio con alcuni passaggi dell’Enciclica Fratres omnes e episodi della vita di san Francesco, il papa ha iniziato il suo viaggio in Iraq con il motto: “Siete tutti Fratelli”.

Il logo raffigura il Papa nel gesto di salutare il Paese, rappresentato in mappa e dai suoi simboli, la palma e i fiumi Tigri ed Eufrate. C’è anche una colomba bianca, nel becco un ramoscello di ulivo, simbolo di pace, che vola sulle bandiere della Santa Sede e della Repubblica dell’Iraq. A sovrastare l’immagine, il motto della visita riportato in arabo, curdo e caldeo.
A capo della chiesa cattolica irachena è il cardinale Luis Sako, dal 31 gennaio 2013 Patriarca di Babilonia dei Caldei il quale dice che dal 1 agosto 2004 – prima bomba contro la chiesa di Sant’Elia a Baghdad – una serie micidiale di attentati si sono succeduti in molte città e villaggi, portando il computo dei morti a quasi mille, per tacere dei feriti, i rapimenti, gli allontanamenti forzati, estorsioni e minacce di ogni tipo. Nello specifico, si tratta di eliminare “non musulmani”, e pazienza se sono iracheni presenti nel Paese da centinaia e centinaia di anni. Anzi, da migliaia, perché rivendicano la loro conversione a opera della predicazione dell’apostolo Tommaso.
Si può definire la Chiesa irachena una Chiesa martire? La Chiesa caldea ha sempre avuto, suo malgrado, questo carisma, essere una Chiesa martire. All’epoca dei persiani, molti cristiani sono stati uccisi. A Kirkuk nella cattedrale, la “chiesa rossa”, sono stati uccisi, nel V secolo, migliaia di cristiani. Poi sono arrivati gli arabi e hanno forzato i cristiani a diventare musulmani, ne hanno uccisi altri. Poi i mongoli, gli ottomani...
Anche oggi ci sono martiri. Un chierichetto di Kirkuk ha detto ai rapitori: “Potete fare di me ciò che volete: io non rinnegherò mai Gesù, non diventerò mai musulmano”. Poi gli americani sono passati di lì e lo hanno salvato. Un medico di Kirkuk è stato torturato al punto di uscire dalla prigionia mezzo morto, ma è rimasto cristiano. Potrei raccontare decine di queste storie, sconosciute a voi, cristiani d’Occidente. Sì, penso che noi dobbiamo trovare il modo di restare. Ci sono luoghi sicuri in Iraq, come la regione del Kurdistan: bisogna rifugiarsi lì. Si può trovare una soluzione, reclamare i nostri diritti ed entrare nel governo centrale o regionale per difenderli. Si possono ottenere molti diritti. La nostra presenza ha un senso! La nostra formazione, le nostre qualifiche, la nostra religione, la nostra morale, ci permettono di influire sui nostri concittadini. Non è per caso che noi ci siamo. Abbiamo una vocazione, portiamo un messaggio: la pace, l’apertura, il rispetto degli uni e degli altri, l’amore, il perdono, il dialogo e il lavoro insieme per una vita migliore, ecco che cosa possono offrire i cristiani come valori a tutta la società.
I cristiani sono stanchi di tutti questi conflitti che durano da anni e tuttavia non si può compiere un esodo completo, partire tutti, in massa, per lo stesso luogo... È una rottura, un taglio con la nostra storia, con la nostra terra. Si sa, la terra non è solamente la polvere. La terra sono io, la mia identità, la mia storia, il mio futuro, la mia terra promessa.
 

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