Nel Paradiso non c’è S.Giuseppe

Nel Paradiso non c’è S.Giuseppe

Stiamo continuando il mese di maggio riflettendo su Maria, così come emerge dalla Divina Commedia. In settimana Mons. Daniele Rota ha scritto un articolo su L’Eco di Bergamo, che qui riprendiamo in diversi passaggi, evidenziando come, nel massimo poema cristiano a sfondo storico, che va da Adamo a Bonifacio VIII e oltre, San Giuseppe non sia mai nominato.

 

Personaggio straordinario, che anima tante pagine della vicenda evangelica, risulta del tutto assente dall’universo cristiano di Dante, anche là ove sembrerebbe impossibile non trovarlo: nella terza cantica, Il Paradiso, la patria di tutti i Santi e Beati. Perché? Qualche tentativo di risposta lungo i tempi, c’è stato, a partire da chi annota che poiché San Giuseppe nei Vangeli non rompe mai il silenzio, non fa mai udire la sua voce, Dante, con atteggiamento di devota consonanza, lo conferma in questo suo stato di totale silenzio, rispettando il misterioso disegno della divina volontà che così lo connota. Altri, più studiatamente, fanno osservare che l’asserita assenza di San Giuseppe nella Commedia non è del tutto obbiettiva e si rifanno all’ultimo canto della Commedia, ove, senza soluzione di continuità, quale firma dell’autore per l’intero elaborato, in continuazione della solenne invocazione a Maria, con le iniziali della terzine susseguenti, ai capoversi 19, 22, 25, 28, 31, 34, 37, si forma l’acrostico IOSEP. AV: il saluto a Giuseppe come lo pronunciavano i medioevali.
Attualmente l’approfondimento dell’argomento sembra doversi concentrare sull’esegesi patristica comparata, cui Dante e tutto il Medioevo erano particolarmente attenti e sensibili. In esame e a confronto sono due testi marcatamente messianici: Isaia XI, 1: «Un germoglio spunterà dal tronco di Jesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici» e Matteo 1,16: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria dalla quale è nato Gesù, chiamato il Cristo».
Si risale all’epoca e all’opera di Tertulliano (155/60-230), il quale, congetturando e comparando a modo suo i due testi, giunse a sostenere che entrambi i testi, intesi a gettar luce sulla nascita di Cristo, fanno riferimento esclusivamente a Maria per cui Giuseppe rimane, di fatto, ai margini dell’incarnazione. Quasi un prestanome, uno dei tanti, quali quelli che lo precedono nell’albero genealogico di Matteo. Dante cita il celebre passo di Isaia in Convivio IV,5 traducendo dal testo della Vulgata di San Girolamo, quindi in diretta dipendenza da Tertulliano. Nella cui interpretazione, errando sostanzialmente, non si tiene conto del fondamentale asserto che, in Matteo, Gesù è discendente da Iesse tramite Giuseppe della famiglia di Davide e non da Maria, della tribù di Giuda.
Un errore interpretativo e valutativo di portata generazionale, che fece scuola.
Bisogna attendere il beato Pio IX per il primo documento ufficiale della Chiesa: il decreto della Congregazione dei Riti del 10 settembre 1847 che estende a tutta la cristianità la festa del patrocinio di San Giuseppe. Tutti i successivi Pontefici promossero autorevolmente il suo culto con una abbondante messe di documenti, fino alla lettera apostolica di papa Francesco: “Con il cuore di Padre” a ricordo del 150 anniversario della Dichiarazione di San Giuseppe a patrono della Chiesa universale. La teologia della storia continua e nobilita la Chiesa anche colmando le sue pregresse lacune.
Con buona pace di Tertulliano e di Dante, auspice Papa Francesco.

 

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