letterina 20180715

L’anima c’è ma...

Lo conosciamo come spesso lui si presenta: "Sono il 33% del Trio". Il trio è quello composto da Aldo, Giovanni e Giacomo; lui è Giacomo Poretti, classe 1956, infanzia trascorsa in paese (Villa Cortese), vita adulta a Milano. È lui che darà vita, martedì 17 luglio, all’evento clou della settimana di Avvenire e Il Popolo. Lo fa portando in scena lo spettacolo "Fare un’anima".

Come si fa un’anima?
Non lo so, è difficilissimo, specie di questi tempi, perché è una modalità e quindi una parola fuori moda. Anima: suona antica, roba da soffitta. La soffitta delle parole è il dizionario e, quando finiscono lì, sono belle che morte. Lo spettacolo nasce proprio da questa considerazione, dalla comprensione di questo non attuale interesse. Riflette sulla scarsa attitudine del mondo d’oggi all’anima.
Da cosa nasce uno spettacolo così?
Nasce da quello che un sacerdote dice a un papà che ha appena avuto un bambino: "Bravi, avete fatto un corpo, adesso dovete fare un’anima". Sembrava una frase insensata o relegata alla dimensione religiosa e, invece, ha lavorato dentro.
Il papà era lei?
Sì, ero io. Ma credo che la frase sia stata rivolta anche ad altri.
L’anima è da riscoprire o da costruire?
L’anima c’è già. Va scoperta e va creduta. A noi capita qualcosa di straordinario e terribile: il percepire qualcosa, una presenza. Il sentirla e non vederla, perché è una presenza non corporea. E per di più questo nostro sentire è da confermare sempre, per quella bellissima e tragica libertà di scegliere che ci è stata data.
Ma senza il don Giancarlo dell’oratorio sarebbe mai arrivato ad uno spettacolo sull’anima?
Certo, il don Giancarlo del mio oratorio di Villa Cortese, della mia infanzia, quello che da solo faceva da tata a tutti i ragazzi del paese ogni pomeriggio… (ne parla nel suo primo romanzo "Alto come un vaso di geranei" ndr.). É stato una figura importante. Ma poi anche i miei genitori, la suora dell’asilo, i nonni... Gli altri contano: ci sollecitano, ci provocano, ci dicono qualcosa che magari al momento resta lì, ma non è perso, rimane dentro.
Lei ha fatto anche da testimonial per l’oratorio. Ci tiene proprio.
L’ho fatto un paio di anni fa. E l’ho fatto con molta contentezza. Ma anche con la consapevolezza che non ha più la funzione di occuparsi in toto dei ragazzi come capitava con noi. Il mondo cambia e cambiano le esigenze. Però ritengo importante che ci sia.
Guardando il suo percorso, sembra che da qualche tempo la dimensione del mistero, della fede, sia più presente. È più presente o c’è più coraggio nel manifestarla?
Emerge adesso perché c’è adesso, corrisponde al mio percorso personale. È una dimensione a cui magari capita di dare poca importanza, poi qualcosa accade. E dopo, manifestarla non è un atto di coraggio. Senti che è una cosa talmente bella che hai voglia di dirlo. Un po’ come per chi fa una scoperta e lo racconta al mondo.
È a Bibione per la festa dell’Avvenire. Che rapporto c’è?
Ho cominciato a scrivere per La Stampa. Capita così: vieni letto, poi ci si conosce e ci si frequenta. Piano piano il legame è andato saldandosi con il direttore Marco Tarquinio e con Francesco Ognibene.
Ho letto che collabora con l’Ufficio delle Comunicazioni sociali della Curia di Milano.
Diciamo che saltuariamente collaboro, quando il cardinale o il vescovo hanno ritenuto di averne bisogno.
Come è iniziato e cosa ha fatto?
È partito tutto dal cardinale Scola che ha voluto creare due grandi eventi in piazza Duomo, eventi da 40/50 mila persone. Uno per Expo, legato alla alimentazione; l’altro era un dialogo sulla Madonna, per l’esposizione della reliquia del Sacro Chiodo, conservato in Duomo.
Dagli articoli ai libri: quanto conta la scrittura per lei?
La scrittura mi piace molto. Ultimamente è la cosa che mi piace di più. Ho trovato la modalità giusta per esprimermi.
Scriveva anche i testi per il Trio?
No, lì c’era più improvvisazione. Poi ci pensavano altri a fissare sulla carta il nostro lavoro. Questa della scrittura è una dimensione tutta mia, personale.
Lei ha fatto l’operaio e le serali, poi l’infermiere, poi il comico. La sua parabola può essere un esempio per i "neet", purtroppo un primato italiano in Europa. Manca un sogno a questi ragazzi?
La questione è grande e seria. Non posso che rispondere facendo una enorme semplificazione: io sono nato alla fine degli anni ’50. C’era una tale fame di realizzazione nelle persone del dopoguerra, era la fame di affrancarsi dalla povertà. La pubblicità proponeva: un frigo per ogni famiglia. Ed era vero, noi non avevamo niente. Io e mia sorella non avevamo niente. E allora c’era la corsa ad accaparrarsi il bagno, il frigo, anche il lavandino a casa mia. C’era fame di conquista. Così, tutti avevamo una strada segnata. Oggi, invece, non si sa. Questo è il punto. Non si sa perché si fa quel che si fa. Guardi, quando il papa parla degli ultimi, io penso ai metropolitani.
Ci serve una spiegazione.
Noi ci dobbiamo occupare degli ultimi: così dice Francesco. E dice bene. Ma, vivendo io in una metropoli, non posso non pensare a quelli che vedo. I metropolitani, i milanesi corrono sempre, sono inquieti: fanno tanto e non sanno perché. Vale ancora di più per i ragazzi. Non si sa perché si fa tutto quello che si fa.
Ha nominato il Papa. Una foto vi immortala a San Siro.
Ho avuto fortuna. Tra le migliaia di mani che ha stretto c’era anche la mia. Non ho avuto incontri personali. Lo seguo, è molto carismatico, esce dagli schemi. Lui arriva. Ma oggi si prende solo quello che serve. Vale anche per sacerdoti, religiose e uomini di fede: dicono cose significative e interessanti ma poi vengono diciamo ’quasi’ ascoltati o ’apparentemente’ ascoltati. Apparentemente è un avverbio che ci metterei proprio.
Eppure ha titolato il suo ultimo libro: "Al paradiso è meglio credere".
Il titolo riprende una frase di Pascal, la sua scommessa. Lui, inventore della statistica e della probabilità, aveva fatto un ragionamento sulla fede ed era giunto alla conclusione che sì, al paradiso conviene credere.
Per questo il protagonista si finge prete?
Non riesce a credere ma è attanagliato da questa fede mancata. Il pensiero lo perseguita. E allora, poiché non è riuscito ad averla dentro, la indossa con la veste. Fa il falso prete, perché non riesce ad essere un credente vero.
Lei ha dichiarato: "Dio è un artista". Lo è anche lei: un’intesa doveva arrivare…
L’affermazione è forte. Lui è un artista per certo: basta guardarsi attorno. Io l’ho detto perché - anche se qui sintetizzo un concetto impossibile da sintetizzare - mi pare che il senso della vita, almeno come io l’ho compresa, è che lui voglia la gioia. E che noi, accettando la vita, con gioia ci mettiamo a giocare con Lui.

Simonetta Venturin

 

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letterina 20180708

Tre porte

Un proverbio arabo recita: “Ogni parola, prima di essere pronunciata, dovrebbe passare attraverso tre porte. Sulla prima c’è scritto: È vera? Sulla seconda c’è la domanda: È necessaria? Sulla terza porta è scolpita la scritta: È buona?”.
C’è molta sapienza in questo detto. Dalla parola, infatti, dipende la comunicazione e da questa la possibilità della comunione e quindi della qualità della vita umana. Quanto meglio uno comunica, tanto più si umanizza. Nella parola c’è la possibilità più decisiva per uscire da se stessi e raggiungere l’altro, gli altri. Per questo il nostro Dio è un Dio che parla, e tutta la Bibbia è una testimonianza di questa Parola rivolta all’umanità in tempi e luoghi diversi fino a farsi “carne” in Gesù, uomo che ha parlato e vissuto con noi. Eppure la parola non è facile, né garantita, né spontanea. Occorre generarla ricevendo un seme di parola da altri, permettendo in noi una gestazione lunga, in cui la parola prenda forma e cresca, e poi occorre partorirla nella fatica, facendola venire al mondo. Non c’è parola senza una gravidanza di silenzio e disciplina che la preceda. Non c’è parola nostra che non nasca dalla parola di altri. Lungo mestiere quello di imparare a parlare... Il Vangelo ci raccomanda che il nostro parlare sia “’Sì, sì’, ‘No, no’” (Mt 5,37). E tuttavia ciascuno di noi purtroppo conosce bene le conseguenze disastrose della menzogna, soprattutto nella famiglia e nella comunità, dove l’assiduità dei rapporti, delle parole scambiate, fornisce molte occasioni alla menzogna e ne amplifica i danni. I monaci sanno che nella vita comune la menzogna inizia dalla chiacchiera inutile, dal parlare per far tacere la propria solitudine, oppure dal parlare per apparire all’altro con una maschera, non con il proprio e semplice “essere”. Tale atteggiamento scivola poi nella mormorazione, il detestabile vizio tipico dei pusillanimi. Dalla mormorazione si passa poi facilmente alla calunnia, alla maggiorazione dei fatti, a un’interpretazione sviante o manipolatoria. A questo punto l’omicidio è già avvenuto: la parola menzognera, infatti, uccide... L’antidoto è il faticoso esercizio e la pratica quotidiana della parresía, il dire il vero con semplicità e retta intenzione.
Si commetteranno ugualmente errori nella comunicazione, ma almeno non si sarà consumata la menzogna, e la relazione potrà ricominciare di nuovo. Se qualcuno va in collera, l’altro al momento si sente ferito, ma se “il sole non tramonta sull’ira” (cf. Ef 4,26) la relazione può ricominciare, perché comunque la fiducia non è messa in dubbio. Se invece accade la menzogna, è difficile ricominciare: un vaso rotto è sempre rotto, in frantumi, anche quando si attaccano i cocci! Anche allora però non tutto è perduto: resta la nobile e difficile arte del kintsugi. Come l’abile ceramista “ripara con l’oro” le fratture di un oggetto spezzato, così al discepolo di Gesù è chiesto di imparare a risanare con l’oro della carità le cicatrici provocate dalla menzogna. Cfr Enzo Bianchi

 

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letterina 20180701

Temi semplici?

I ragazzi intervistati sulle gradinate delle scuole dopo la prima sessione degli esami di maturità hanno risposto alle domande dei giornalisti con serenità. La gran parte di loro ha giudicato “semplici” le tracce proposte per la prima prova, il tema di italiano. In effetti la rosa delle proposte quest’anno è stata “fattibile”, facendo riferimento a un patrimonio di conoscenze concrete degli studenti. Argomenti certamente trattati nel corso degli studi a diversi livelli e sotto varie angolature. Temi attuali, fra l’altro, che richiamano urgenze contemporanee come il principio dell’uguaglianza, l’antisemitismo e tutte le altre forme di discriminazione, l’europeismo, il concetto di propaganda e i temi della bioetica.
Non ultima urgenza (di natura più filosofica), la riflessione sulla solitudine come tema esistenzialistico e spazio dedicato alla ricerca della propria essenza e anche della propria dimensione creativa, oggetto anch’essa di una delle proposte di esame. Insomma, molta carne al fuoco... In un certo senso, in occasione degli esami di maturità, due (o più) generazioni diverse si incontrano e dialogano e, anche se a fare da sfondo disturbante c’è la componente ansia, ciò che ne emerge è un confronto socio antropologico assai interessante. Sempre che ci siano le parole sufficienti per poterlo esprimere... Eh sì, perché le parole ancora una volta sono il nodo di questo e di qualsiasi altro confronto.
Umberto Galimberti, nel suo ultimo saggio “La parola ai giovani”, denuncia il fatto che le nuove generazioni abbiano perso proprio la dimestichezza nell’uso delle parole. Il vocabolario personale di un giovane si è ridotto a poche centinaia di parole. “Riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo, perché non riusciamo ad avere pensieri a cui non corrisponde una parola. Le parole non sono strumenti per poter esprimere il pensiero, al contrario sono condizioni per poter pensare”. In molti pensano che saper scrivere ormai sia inutile in un mondo in cui a contare non sono più le parole, ma i fatti, e ancor più dei fatti, le immagini”. La difficoltà, quindi, sta proprio nell’espressione della propria identità e del proprio modo di pensare che può fondarsi solo attraverso la costruzione di riflessioni, e cioè attraverso la famosa attitudine speculativa tanto cara ai filosofi del tempo antico. Senza la ricerca e l’analisi del pensiero qualsiasi argomento diventa una vetta irraggiungibile, anche ciò che all’apparenza ci pare “semplice”. Riprendendo appunto l’aggettivo usato dai giovani studenti intervistati per definire la prova proposta.
L’eguaglianza, la conoscenza di sé, la storia... non sono affatto temi semplici.

 

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letterina 20180624

Grande Giovanni

Ci sono persone che rendono onore alla razza umana, uomini e donne che nelle loro scelte e nel loro operato ci fanno sentire orgogliosi di appartenervi. Giovanni è sicuramente fra questi: chiamato fin da bambino ad assumere un ruolo scomodo, quello del profeta, ha vissuto questo compito con grande serietà, diventando il punto di riferimento per un intero popolo alla ricerca di Dio. Immenso Giovanni seccato dal vento del deserto. Immenso profeta acido e violento, dai lunghi solchi che scavano le guance, roso dalla propria missione, svuotato dai lunghi digiuni e dalla penitenza!
Quando sei andato via di casa per seguire quella voce interiore? Quando hai sentito la derisione dei tuoi compagni che ti prendevano per pazzo? Quanto silenzio assordante hai dovuto sopportare prima di scoprire che tu eri voce? Quante volte hai scrutato i volti tra la folla che giungeva a fiumi e si gettava in ginocchio davanti a te per vedere se - infine - egli fosse giunto? Quanto ti è costato dire che tu non eri nulla e che scomparivi davanti a lui, e che lui avrebbe acceso il fuoco che tu stavi preparando? Quanta verità in te, immenso Giovanni, che non hai cavalcato l'entusiasmo, che non hai giocato a fare il Messia o il guru ma sei stato al tuo posto rifiutando ogni corona e ogni gloria? Cosa hai provato vedendolo in mezzo ai penitenti - l'immacolato, il senza colpa, il puro - venire a chiederti il battesimo? E quanta solitudine e sconcerto hai provato - ultima prova, definitiva prova - quando nel buio di una cella ti sei chiesto se fosse davvero lui il Messia o se ti eri preso un abbaglio? Grande Giovanni, grande profeta che hai suscitato l'ammirazione di Dio!

 

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letterina 20180617

La carezza continua...

La carezza che Giovanni XXIII ha portato nella diocesi di Bergamo durante i giorni della peregrinatio ora diventa vita. Come segno concreto di questo passaggio del Santo Papa Giovanni XXIII, il vescovo di Bergamo monsignor Francesco Beschi ha infatti comunicato l’apertura da parte della diocesi di “Casa Amoris Laetitia”, un servizio extra-ospedaliero per minori con patologie pediatriche complesse, croniche e di fine vita. Un sostegno per loro e per le loro famiglie.
Il vescovo ha dato l’annuncio Domenica scorsa a Sotto il Monte, durante la Messa conclusiva della peregrinatio delle spoglie di Papa Giovanni XXIII. Un evento che in 18 giorni ha portato a Bergamo e Sotto il Monte oltre 250 mila pellegrini. La casa “Amoris Laetitia” opererà, come ha sottolineato il vescovo, “in un ambito per ora scoperto, in cui sono state attivate finora pochissime risposte”. La carezza del Papa Santo diventa così impegno affettivo e effettivo.
“Sarà un servizio extra ospedaliero per i minori più deboli e malati, con patologie complesse”, spiega monsignor Beschi. “Casa Amoris Laetitia” sarà aperta a Bergamo per dimostrare ancora una volta la vicinanza della diocesi alle famiglie in situazione di difficoltà e dolore. “Si rivolge ai bambini e alle loro famiglie, ai piccoli in situazioni fragilità, con un’area individuata sul nostro territorio per dare supporto e servizi extra-ospedalieri” ha concluso il vescovo. La nuova casa è gestita dalla Fondazione Angelo Custode della diocesi di Bergamo a cui fanno riferimento diversi servizi nell’ambito della disabilità. La struttura aprirà in via Conventino, dove già sono dislocati i servizi della Fondazione Angelo Custode. Potrà ospitare fino a 10 minori in forma residenziale, ma assicurerà anche servizi di sostegno e sollievo, di permanenza diurna e di accoglienza di genitori e figli. L’ambiente è stato allestito in modo da assicurare un clima intimo, caldo, familiare. I lavori sono stati eseguiti con risorse della diocesi ed è in corso anche la procedura di accreditamento in Regione Lombardia. Un ambiente come questo tende a limitare al minimo i periodi che i piccoli pazienti affetti da terapie complesse devono trascorrere in ospedale, valorizzando invece il ruolo della famiglia e offrendole la possibilità di trovare vicinanza, rispetto, e affiancarla nella ricerca di senso in momenti difficili.
Così la “carezza” non suscita solo buoni sentimenti, ma azioni concrete di Vangelo. Ed è l’eredità che dobbiamo coltivare nella terra di papa Giovanni.

 

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letterina 20180610

Buonanotte da... papa Giovanni

In questi giorni di grande coinvolgimento per il ritorno di Papa Giovanni a Bergamo sono tantissime le storie che si incrociano a Sotto il Monte. Un volontario ha raccontato a L’Eco di Bergamo questa meravigliosa storia.

È sabato sera. L’urna di Papa Giovanni XXIII è in Cattedrale, in Città Alta. L’afflusso dei fedeli è continuo. Nonni, giovani, famiglie, bambini. Passa un papà, con un bimbo ricciolo e biondo. Avrà sui cinque anni o giù di lì. Nessuno pensa di chiedere qualche informazione in più, un nome, un paese di provenienza. È una scena come tante che si ripetono davanti alle spoglie del Santo che a cinquantacinque anni dalla sua morte attira ancora migliaia di persone in preghiera. Babbo e figlio passano e vanno, come tutti. Di lì a poco, tornano indietro. «Posso dargli la buonanotte?», ha chiesto il piccolo al volontario. Come dirgli di no. Un volontario comprensivo consente di passare senza rifare la coda. «Vai pure a dare la buonanotte a Papa Giovanni», dice al piccoletto. Che nella sua dolcezza butta lì un ricordo: «Perché è quel signore lì che veniva in ospedale a farmi compagnia e a darmi la buonanotte». Un brivido di emozione attraversa chi ascolta. C’è solo il tempo di intuire che dietro quei pochi anni di vita e quel sorriso c’è stato già troppo tempo passato in ospedale, che finalmente ora è solo un ricordo. Il papà spiega in poche parole: «Quando siamo passati ha fissato il Santo, si è illuminato e mi ha detto: papà, è lui il signore che veniva in ospedale a darmi la buonanotte. Lo ha detto, ma noi non capivamo».
Anche perché volontari di notte in ospedale non ce ne sono. C’è solo il personale medico e infermieristico di turno. «Quel signore» negli occhi di un bimbo che rincorreva il futuro lottando nella sofferenza era Papa Giovanni. Ai volontari e ai sacerdoti che hanno raccolto queste poche parole, non dispiacerebbe poter riabbracciare quel bambino e stringere la mano al papà. Chissà. Attorno all’urna del Santo Papa delle carezze ai bambini, anche questo può accadere.

 

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