letterina 20181007

Famiglie troppo calde, società troppo fredda

“Molti di noi eravamo giovani o muovevamo i primi passi nella vita religiosa mentre terminava il Concilio Vaticano II”, ha detto il Papa rivolgendosi ai 267 padri sinodali, il 3 ottobre, apertura del Sinodo dei Giovani. “Ai giovani di allora venne indirizzato l’ultimo messaggio dei Padri conciliari. Ciò che abbiamo ascoltato da giovani ci farà bene ripassarlo di nuovo con il cuore ricordando le parole del poeta: L’uomo mantenga quello che da bambino ha promesso’”(Hölderlin).
Ma cosa trovano i giovani oggi? Quale è il tessuto degli adulti e quindi anche delle comunità? Sembra di registrare sempre più una sorta di abdicazione degli adulti al loro ruolo, con un venir meno della dimensione comunitaria della vita sociale, lasciata al solo al mercato che porta ad un appiattimento generazionale che vede ragazzi, giovani e adulti accomunati da una medesima dinamica: nel modo di vestire, parlare, comportarsi, ma soprattutto nelle relazioni e negli affetti che rivelano le stesse difficoltà.
Leggiamo alcuni passaggi di un libro interessante (A.Matteo: Tutti muoiono troppo giovani). È sotto gli occhi di tutti un duplice, impressionante fenomeno legato all'adulterazione dell'età adulta: da una parte, si fa strada un continuo surriscaldamento globale delle famiglie, nelle quali i bisogni dei figli vengono soddisfatti ancor prima di essere espressi, finendo a lasciar presagire preoccupanti scenari tra le generazioni coinvolte in questa ossessiva rincorsa di affetto, protezione e controllo; dall'altra, va tragicamente registrata una costante glaciazione dei rapporti sociali, segnati da marcati fenomeni di concorrenza spietata, scorrettezza senza esclusione di colpi, illegalità diffusa, difesa a oltranza di posizioni di potere, di rendita e di prestigio...
Ecco il punto: famiglie troppo calde e spazi sociali troppo freddi. Insomma paradiso e inferno, separati solo dall'uscio di casa.
E l'effetto intergenerazionale, qual è? È che i figli a casa hanno tutto, in società mancano di tutto; a casa la vita appare loro senza domande, in società appare senza risposte. Di questo sono responsabili gli adulti, indotti dalla loro longevità a credere in una sorta di personale giovinezza immortale, la quale fa sì che essi pongano in essere le condizioni perché i giovani - quelli veri - non crescano, non mettano il naso fuori di casa (tanto è il gelo), e soprattutto non vengano a reclamare nella pubblica piazza il loro posto, non incalzino con le loro prerogative disattese questi adulti del «come te li porti bene i tuoi settant'anni», non li scalzino dalle loro poltrone: insomma, non li dichiarino vecchi. Semplicemente mortali.
Insomma, non possiamo parlare della vita dei giovani – e della fede e del modo di amare e... - senza parlare degli adulti.
Un sinodo anche per loro?

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letterina 20180930

La libertà è un tesoro da conservare

Papa Francesco ha concluso il viaggio apostolico (22-25 settembre) nelle Repubbliche baltiche, alle quali prima di partire ha scritto “La libertà è un tesoro da conservare”.
Anche i motti del viaggio sono densi di significato: in Lituania è “Gesù Cristo la nostra speranza”, in Lettonia è “Mostra di essere madre”, che ricorda la fede mariana della nazione e preconizza la visita al santuario internazionale di Aglona, e in Estonia è “Svegliati, cuore mio!”.
Proprio nella messa con cui si congeda dall’Estonia, dalla Piazza della Libertà di Tallinn, il Papa è tornato a declinare una parola – libertà – che è stata il “filo rosso” del suo viaggio , fin dalla prima tappa in Lituania.
“Alcuni si considerano liberi quando vivono senza Dio o separati da Lui”, la prima ipotesi vagliata da Francesco: “Non si accorgono che in questo modo viaggiano attraverso questa vita come orfani, senza una casa dove tornare. Cessano di essere pellegrini e si trasformano in erranti, che ruotano sempre intorno a sé stessi senza arrivare da nessuna parte”.
“Spetta a noi, come al popolo uscito dall’Egitto, ascoltare e cercare”, la consegna. “A volte alcuni pensano che la forza di un popolo si misuri oggi da altri parametri”, l’obiezione raccolta dal Papa: “C’è chi parla con un tono più alto, così che parlando sembra più sicuro – senza cedimenti o esitazioni –; c’è chi, alle urla, aggiunge minacce di armi, spiegamento di truppe, strategie... Questo è colui che sembra più forte”. “Questo però non è cercare la volontà di Dio, ma un accumulare per imporsi sulla base dell’avere”, il monito: “Questo atteggiamento nasconde in sé un rifiuto dell’etica e, con essa, di Dio. Perché l’etica ci mette in relazione con un Dio che si aspetta da noi una risposta libera e impegnata verso gli altri e verso il nostro ambiente, una risposta che è al di fuori delle categorie del mercato”.
“Voi non avete conquistato la vostra libertà per finire schiavi del consumo, dell’individualismo o della sete di potere o di dominio”, ha detto Francesco: “Dio conosce i nostri bisogni, quelli che spesso nascondiamo dietro il desiderio di possedere; anche le nostre insicurezze superate grazie al potere. Quella sete, che abita in ogni cuore umano, Gesù ci incoraggia a superarla nell’incontro con Lui. È Lui che può saziarci, colmarci con la pienezza della fecondità della sua acqua, della sua purezza, della sua forza travolgente. La fede è anche rendersi conto che Egli è vivo e ci ama; che non ci abbandona e, perciò, è capace di intervenire misteriosamente nella nostra storia; Egli trae il bene dal male con la sua potenza e la sua infinita creatività”. 

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letterina 20180923

Uno sguardo che genera

«Uno sguardo che genera»: il filo conduttore della lettera pastorale del vescovo di Bergamo, Francesco Beschi, è anche un invito ad aprire orizzonti, a fare spazio, a lasciare che le novità germoglino, a non avere paura dell’ignoto. Inizia con una storia di Gianni Rodari: «La strada che non andava in nessun posto» (Favole al telefono, 1962) che qui leggiamo.

All’uscita del paese si dividevano tre strade: una andava verso il mare, la seconda verso la città e la terza non andava in nessun posto. Martino lo sapeva perché l’aveva chiesto un po’ a tutti e da tutti aveva avuto la stessa risposta: – Quella strada lì? Non va in nessun posto! È inutile camminarci. – E fin dove arriva? – Non arriva da nessuna parte. – Ma allora perché l’hanno fatta? – Ma non l’ha fatta nessuno, è sempre stata lì! – Ma nessuno è mai andato a vedere? – Sei una bella testa dura! Se ti diciamo che non c’è niente da vedere... – Non potete saperlo se non ci siete stati mai.
Era così ostinato che cominciarono a chiamarlo “Martino Testadura”, ma lui non se la prendeva e continuava a pensare alla strada che non andava in nessun posto. Quando fu abbastanza grande da attraversare la strada senza dare la mano al nonno, una mattina si alzò per tempo, uscì dal paese e senza esitare imboccò la strada misteriosa e andò sempre avanti. Il fondo era pieno di buche e di erbacce; a destra e a sinistra si allungava una siepe ma ben presto cominciarono i boschi. I rami degli alberi si intrecciavano al di sopra della strada e formavano una galleria oscura e fresca nella quale penetrava solo qua e là qualche raggio di sole a far da fanale. Cammina e cammina... la strada non finiva mai.
A Martino dolevano i piedi e già cominciava a pensare che avrebbe fatto bene a tornarsene indietro quando vide un cane. Dove c’è un cane c’è una casa – rifletté – o perlomeno un uomo! Il cane gli corse incontro scodinzolando, poi si avviò lungo la strada e ad ogni passo si voltava per controllare se Martino lo seguiva ancora. Finalmente il bosco cominciò a diradarsi, in alto riapparve il cielo e la strada terminò sulla soglia di un grande cancello di ferro. Attraverso le sbarre vide un castello con tutte le porte e le finestre spalancate e da un balcone una bellissima signora salutava con la mano e gridava allegramente: – Avanti! Avanti, Martino Testadura! – Toh! – si rallegrò Martino – io non sapevo che sarei arrivato, ma lei sì!
Spinse il cancello, attraversò il parco ed entrò nel salone del castello in tempo per fare l’inchino alla bella signora che scendeva dallo scalone. Era vestita meglio delle fate, delle principesse e in più era allegra e rideva. – Allora non ci hai creduto! – A che cosa? – Alla storia della strada che non andava in nessun posto. – Era troppo stupida e secondo me ci sono anche più posti che strade! – Certo! Basta aver voglia di muoversi! Ora vieni, ti farò visitare il castello.
C’erano più di cento saloni zeppi di tesori d’ogni genere, diamanti pietre preziose, oro, argento e ogni momento la bella signora diceva: – Prendi! Prendi quello che vuoi! Ti presterò un carretto per portare il peso. Figuratevi se Martino si fece pregare! Il carretto era ben pieno quando egli ripartì. A cassetta sedeva il cane che era un cane ammaestrato e sapeva reggere le briglie e abbaiare ai cavalli quando sonnecchiavano e uscivano di strada.
In paese, dove l’avevan già dato per morto, Martino Testadura fu accolto con grande sorpresa. Martino fece grandi regali a tutti, amici e nemici e dovette raccontare cento volte la sua avventura e ogni volta che finiva, qualcuno correva a casa a prendere carretto e cavallo e si precipitava giù per la strada che non andava in nessun posto. Ma quella sera stessa tornarono uno dopo l’altro con la faccia lunga così per il dispetto: la strada per loro finiva in mezzo al bosco, contro un fitto muro d’alberi, in un mare di spine. Non c’era più né cancello, né castello, né bella signora perché certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova e il primo era stato Martino Testadura.

Da questa storia il vescovo trae alcune immagini: «La prima è quella della via misteriosa attorno alla quale si sviluppa un paradossale dialogo che invece di quietare, alimenta la curiosità e il desiderio. La seconda è quella del castello al quale si giunge attraversando un fitto bosco: tenacia e fiducia sostengono la ricerca e aprono occhi e cuore alla sorpresa che riempie di gioia e di ricchezza. La terza è quella del paese e dei suoi abitanti... La proposta o, se volete, la necessità è quella di camminare insieme: accompagnarsi ed aspettarsi, adottare il passo di chi fa più fatica, a volte più avanti, altre volte accanto o indietro. Camminiamo insieme...

 

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letterina 20180916

Tre filtri

Un giorno Socrate incontrò un conoscente che gli chiese: “Sai che cosa ho appena sentito di un tuo studente?”.
Aspetta” rispose il filosofo. “Prima che tu me ne parli, vorrei che superassi l’esame dei tre filtri.
“Tre filtri?”
Esatto! Filtriamo ciò che stai per dire. Per prima cosa, ti sei accertato al di là di ogni dubbio che ciò che stai per dir-mi è vero?
“No” rispose l’uomo. “In effetti si tratta di una voce.”
Bene!” continuò Socrate. “Quindi non sai se sia vero. Passiamo al secondo filtro: ciò che stai per dirmi sul mio studente è una cosa buona?”.
“No, al contrario.”
Ne deduco che vuoi dirmi qualcosa di male su di lui senza esser certo che sia vero” abbozzò Socrate. L’uomo fece spallucce, imbarazzato. “Ciò che vuoi dirmi circa il mio studente mi sarà almeno utile?”
“Veramente, non credo” rispose l’uomo.
Allora, se ciò che tu vuoi dirmi non è vero, non è buono e neppure utile, perché io dovrei stare ad ascoltarti?”.

Ecco dunque tre criteri meravigliosi:
il filtro della verità, il filtro della bontà, il filtro dell’utilità.
Essere credenti, essere amici di Gesù Cristo, significa divertirsi a dire e a sentire cose buone degli altri: “gareggiate nello stimarvi a vicenda”(dice San Paolo nella lettera ai Romani). Significa sciogliere le nostre orecchie e le nostre labbra da quei nodi nocivi che sono le chiacchiere pettegole acide, i giudizi da invidiosi, i pre-giudizi da ottusi, i post-giudizi da frustrati.
Significa avere il coraggio di sciogliere orecchie e labbra, aprire mente e cuore, per ascoltare e per dire cose belle e buone. Le parole, dette o ascoltate, sono dei sassi, sta a te decidere se alzare muri o costruire ponti. I sassi li incontrerai in ogni momento sul tuo cammino, sta a te decidere cosa farne. Ricorda Qualcuno che disse:” Chi è senza peccato scagli la prima pietra...”

 

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letterina 20180909

Telemaco non si sbagliava

Telemaco non si sbagliava, è il titolo dell’ultimo libro di Luigi Maria Epicoco, una riflessione e meditazione sulla vita del figlio. La giovinezza, ci dice, non è una malattia che deve essere curata. Il primo compito dell'educazione è dare fiducia alla vita del figlio.
La giovinezza non dovrebbe nemmeno essere considerata un periodo delimitato della vita, quanto una risorsa illimitata della vita capace di mantenere la vita sempre viva. Nulla è infatti più tragico di una vita che in vita si manifesta come vita morta. Per Gesù è il peccato più grande: rinunciare al proprio talento. Ecco perché Epicoco può scrivere che «la giovinezza è il tempo dell'amore», nel senso che essa accompagna la vita nel suo dispiegarsi, come se fosse la sua linfa vitale, come una energia - l'energia del desiderio e dell' amore - che rifiuta l'ombra spessa della morte, il peso opprimente del passato, che preferisce l'orizzonte aperto del futuro alla schiavitù infernale del proprio Egitto.
Non a caso alcune pagine tra le più intense sono dedicate al "complesso di Egitto", ovvero a quella attitudine della vita umana a rivolgersi al passato come se fosse una catena dalla quale non ci si riesce a liberare, a preferire le proprie catene alla propria libertà. Cosa significa essere figli? Cosa vuol dire ereditare? Qual è il dono più grande della genitorialità? Come si snoda il processo di filiazione simbolica? Chi è il figlio giusto?
Quella di Telemaco agisce come una figura di figlio che riassume e risponde positivamente a questi interrogativi. Telemaco è il figlio giusto perché sa che la sua vita necessita di quella del padre per trovare la propria via. Omero nell’Odissea ce lo presenta sulla spiaggia, mentre attende il ritorno del padre, non ossessionato dal perché il padre è dovuto andare via.
È il figlio giusto perché interpreta l'essere figlio alla luce del compito etico dell'ereditare: fare nostro, davvero nostro, quello che abbiamo ricevuto dalle generazioni che ci hanno preceduto; intersecare la provenienza con la destinazione; inventare un proprio percorso personale riconquistando quello che gli avi hanno consegnato nelle nostre mani; non restare paralizzati nel conflitto cieco coi padri, ma riconoscere il debito simbolico che ci vincola a loro; non volere la pelle del padre ma stabilire con esso una nuova alleanza nel nome della vita.
Telemaco è il figlio che sa vivere nell'attesa, nella preparazione della venuta dell'Altro senza melanconia, ma con la forza di chi è pronto a un nuovo viaggio.

 

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letterina 20180902

Lettera di un sacerdote al New York Times

Cari fratello e sorella giornalista, sono un semplice sacerdote cattolico. Mi sento felice e orgoglioso della mia vocazione. Vivo da vent’anni in Angola come missionario. Mi provoca un grande dolore, il fatto che persone che dovrebbero essere segni dell’amore di Dio siano stati un pugnale nella vita di persone innocenti. Non ci sono parole che possano giustificare atti di questo tipo. La Chiesa non può che stare dalla parte dei deboli, dei più indifesi. Tutte le misure prese per la protezione della dignità dei bambini, quindi, saranno sempre una priorità assoluta.
Vedo che in molti mezzi di comunicazioni, e soprattutto nel vostro giornale, si amplifica l’argomento in maniera morbosa, andando a scavare nei minimi particolari della vita di qualche sacerdote. Così compare uno di una città degli Stati Uniti, degli anni 70, un altro dell’Australia, degli anni 80, e così via, e altri casi più recenti ... Certamente tutto condannabile! Si vedono anche servizi giornalistici ponderati ed equilibrati, altri amplificati, pieni di preconcetti e persino di odio.
E’ curioso costatare quanto poco facciano notizia e il disinteresse per migliaia e migliaia di sacerdoti che si consumano per milioni di bambini, per gli adolescenti e i più sfortunati ai quattro angoli del mondo.
Penso che al vostro mezzo informativo non interessi il fatto che io abbia dovuto trasportare su percorsi minati nel 2002 molti bambini denutriti da Cangumbe a Lwena (Angola), perché il Governo non si rendeva disponibile e le ONG non erano autorizzate; che abbia dovuto seppellire decine di piccole vittime tra gli sfollati della guerra e i ritornati; che abbiamo salvato la vita a migliaia di persone a Moxico con l’unico posto medico in 90.000 chilometri quadrati, o che abbia distribuito alimenti e sementi; o che in questi 10 anni abbiamo dato un’opportunità di istruzione e scuole a più di 110.000 bambini ...
Non fa notizia che un sacerdote di 75 anni, padre Roberto, di notte percorra le vie di Luanda curando i bambini di strada, portandoli in una casa di accoglienza perché si disintossichino dalla benzina, che alfabetizzi centinaia di detenuti; che altri sacerdoti, come padre Stefano, abbiano case in cui i bambini picchiati, maltrattati e violentati cercano un rifugio, e nemmeno che fr. Maiato, con i suoi 80 anni, vada casa per casa per confortare i malati e i disperati.
Non fa notizia che più di 60.000 dei 400.000 sacerdoti e religiosi abbiano abbandonato la propria terra e la propria famiglia per servire i fratelli in lebbrosari, ospedali, campi di rifugiati, orfanotrofi per bambini accusati di stregoneria o orfani di genitori morti di Aids, in scuole per i più poveri, in centri di formazione professionale, in centri di assistenza ai sieropositivi... e soprattutto in parrocchie e missioni, motivando la gente a vivere e amare.
Non fa notizia che il mio amico padre Marcos Aurelio, per salvare alcuni giovani durante la guerra in Angola, li abbia portati da Kalulo a Dondo e tornando alla sua missione sia stato ucciso a colpi di mitragliatrice; che padre Francisco e cinque catechiste siano morti in un incidente mentre andavano ad aiutare nelle zone rurali più sperdute... Nel cimitero di Kalulo ci sono le tombe dei primi sacerdoti che giunsero nella regione... Nessuno aveva più di 40 anni.
Non fa notizia accompagnare la vita di un sacerdote ‘normale’ nella sua quotidianità, nelle sue difficoltà e nelle sue gioie, mentre consuma senza rumore la sua vita a favore della comunità che serve. La verità è che non cerchiamo di fare notizia, ma semplicemente di portare la Buona Novella, quella notizia iniziata senza rumore la notte di Pasqua. Non pretendo fare un’apologia della Chiesa e dei sacerdoti.
Il sacerdote non è né un eroe né un nevrotico. E’ un semplice uomo, che con la sua umanità cerca di seguire Gesù e di servire i fratelli. Ci sono miserie, povertà e fragilità come in ogni essere umano; e anche bellezza e bontà come in ogni creatura ...
Insistere in modo ossessivo e persecutorio su un tema perdendo la visione d’insieme crea davvero caricature offensive del sacerdozio cattolico in cui mi sento oltraggiato.
Amico giornalista, le chiedo solo di cercare la Verità, il Bene e la Bellezza. Ciò la renderà nobile nella sua professione.
In Cristo, P. Martín Lasarte sdb

 

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