letterina 20100627

L'affondo

 Giovanni nel deserto

"L’esperienza del deserto è stata per me dominante. Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il Nulla, la domanda diventa bruciante. Come il roveto ardente, essa brucia e non si consuma. Brucia per se stessa, nel vuoto. L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo ascolto." (Edmond Jabés)


Forse è questo legame con l’ascolto che fa sì che nella Bibbia il deserto, presenza sempre pregna di significato spirituale, sia così importante.
Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita, il deserto, questo luogo di morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’iniziazione attraverso cui la massa di schiavi usciti dall’Egitto diviene il popolo di Dio. E’ in sostanza luogo di rinascita. E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato non avviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi?
La terra segnata da mancanza e negatività diviene il giardino apprestato per l’uomo nell’opera creazionale. E la nuova creazione, l’era messianica, non sarà forse un far fiorire il deserto? Ma tra  prima creazione e nuova creazione si stende l’opera di creazione continua, l’intervento salvifico di Dio nella storia. Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si attraversa. Quaranta anni, quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù.Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza.
E, forse, l’immensità del tempo del deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito "disertare" ma la tentazione è la regressione, la paura che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della libertà. Una libertà che non è situata al termine del cammino, ma che si vive nel cammino. Però per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione. Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante.

 

 

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letterina 20100620

L'affondo

 Il segno della croce

Ha scritto Romano Guardini: «Quando fai il segno di croce, fallo bene. Non così affrettato, rattrappito, tale che nessuno capisce cosa debba significare. No, un segno della croce giusto, cioè lento, ampio, dalla fronte al petto, da una spalla all'altra. Senti come esso ti abbraccia tutto? Raccogliti dunque bene; raccogli in questo segno tutti i pensieri e tutto l'animo tuo, mentre esso si dispiega dalla fronte al petto, da una spalla all'altra. Allora tu lo senti: ti avvolge tutto, ti consacra, ti santifica. Perché? Perché è il segno della totalità ed il segno della redenzione. Sulla croce nostro Signore ci ha redenti tutti. Mediante la croce egli santifica l'uomo nella sua totalità, fin nelle ultime fibre del suo essere. Perciò lo facciamo prima della preghiera, affinché esso ci raccolga e ci metta spiritualmente in ordine; concentri in Dio pensieri, cuore e volere; dopo la preghiera, affinché rimanga in noi quello che Dio ci ha donato. Nella tentazione, perché ci irrobustisca. Nel pericolo, perché ci protegga. Nell'atto di benedizione, perché la pienezza della vita divina penetri nell'anima e la renda feconda e consacri ogni cosa. Pensa quanto spesso fai il segno della croce, il segno più santo che ci sia! Fallo bene: lento, ampio, consapevole. Allora esso abbraccia tutto il tuo essere, corpo e anima, pensieri e volontà, senso e sentimento, agire e patire, tutto vi viene irrobustito, segnato, consacrato ».
È un segno da riscoprire. E’ il primo simbolo cristiano tracciato su di noi al momento del Battesimo quando tutto in noi cominciava. E sarà l'ultimo segno che tracceranno su di noi, quando tutto sarà finito. Siamo nati in questo segno e moriremo in questo segno. Tutti i doni più grandi della vita sono accompagnati da questo segno: il Battesimo, la Cresima, il perdono dei peccati, l'Eucaristia, il Matrimonio. A ogni incrocio importante della vita la Chiesa traccia su di noi questo segno. Il cristiano usa questo segno prima della preghiera, ma dovrebbe usarlo prima del lavoro, prima del cibo, prima del riposo e al primo risveglio del mattino.  Ma è un gesto di grande importanza, perché è il ricordo del più grande atto di amore di Dio per l'uomo: la morte di Cristo.

 

 

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letterina 20100613

L'affondo

 Profumo d'amore

Salvezza e peccato hanno un denominatore comune: l’amore. Ci si salva nella misura in cui si ama; si vince il peccato con l’amore. L'itinerario della salvezza è amare: amare Gesù. Forse pensiamo alla salvezza come ad un concetto astratto, ma la salvezza in astratto non esiste e il Vangelo ci insegna che ha un nome: Gesù, il Figlio di Dio. E i salvati sono coloro che hanno accolto Gesù e stabiliscono con lui una relazione personale concreta e profonda, capace di trasformare la loro vita di peccatori in quella di redenti. E l’unica relazione che può esistere tra noi e Gesù è una relazione di fede-amore, perché lui è Amore. Salvarsi è dunque facile per chi ama; impossibile per chi non ama.
Chiunque ama e crede in Cristo, è salvato da una forte relazione pienamente autentica. Il perdono dei peccati, ossia la piena riconciliazione, passa per la stessa strada: tutto consiste nell’autenticità dell'amore. Ma quello che, prima di tutto, ciascuno di noi deve avere ben chiaro, è che l’amore di Dio ci previene sempre. Noi siamo capaci di dare solo ciò che riceviamo da Dio. Sarebbe errato pensare che la peccatrice è stata perdonata per aver molto amato, quasi che il Signore l’abbia ricompensata dopo che lei – per prima – lo abbia amato. Invece è vero, bello e consolante riconoscere l’amore ricevuto rivelarsi ed esprimersi nel suo gesto, manifestando ciò che è: una creatura raggiunta dal grande mistero dell’amore divino che è anche perdono. Prima c’è sempre Dio, il suo amore che toccandoci distrugge il male che è in noi. Solo dopo siamo capaci di rispondere con l’amore.
Se guardiamo bene la donna del vangelo, ci accorgiamo che ci assomiglia. E se guardiamo con onestà il nostro cuore, nella misura in cui è abitato dal peccato forse ci sentiremo simili al fariseo. Ma il Vangelo ci ricorda che le lacrime del pentimento e il profumo dell’amore possono aprirci la via della risalita. E sono queste lacrime, non tanto degli occhi ma del cuore, che dobbiamo piangere.
 


 

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letterina 20100606

L'affondo

 Maria, donna del pane

«E lo depose nella mangiatoia».
Nel giro di poche righe, la parola «mangiatoia» è ripetuta tre volte. La qual cosa, tenuto conto dello stile di Luca, insospettisce non poco.
L'evangelista allude: non c'è dubbio. Lui, il pittore, vuole ritrarre Maria nell'atteggiamento di chi riempie il cestino vuoto della mensa. Se è vero che nella mangiatoia si mette il pasto per gli animali, non è difficile leggere in quella collocazione l'intendimento di presentare Gesù, fin dal suo primo apparire, come cibo del mondo. Anzi, come il pane del mondo. Sotto, quindi, la paglia per le bestie. Sopra la paglia, il grano macinato e cotto per gli uomini. Sulla mangiatoia, avvolto in fasce come in candida tovaglia, il pane vivo disceso dal cielo. Accanto alla mangiatoia, come dinanzi a un tabernacolo, la fornaia di quel pane.
Maria aveva capito bene il suo ruolo fin da quando si era vista condotta dalla Provvidenza a partorire lontano dal suo paese, lì a Betlem: che vuol dire, appunto, casa del pane.
Per questo, nella notte del rifiuto, ha usato la mangiatoia come il canestro di una mensa.
Quasi per anticipare, con quel gesto profetico, l'invito che Gesù, nella notte del tradimento, avrebbe rivolto al mondo intero: «Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi».
Maria, portatrice di pane, dunque. E non solo di quello spirituale.
Deformeremmo la sua figura se la sottraessimo alla preoccupazione umana di chi si affatica per non lasciare vuota la mensa di casa sua. Sì, ella ha tribolato per il pane materiale. E qualche volta, quando non riusciva a procurarselo, forse avrà pianto in segreto.
Come quell'altra Maria, povera donna, che abita in un sottano con una nidiata di figli e col marito disoccupato, e, per insolvenza, non le fanno più credito neppure al negozio di generi alimentari. Gesù deve aver letto negli occhi splendenti di sua madre il tormento del pane quando manca, e l'estasi del suo aroma quando, caldo di cenere, si sbriciola sulla tovaglia in un arcipelago di croste. Per questo c'è nel vangelo tanto tripudio di pane, che dividendosi si moltiplica, e, passando di mano in mano, sazia la fame dei poveri adagiati sull'erba, e trabocca nella rimanenza di dodici sporte.
Per questo, al centro della preghiera da rivolgere al Padre, Gesù ha inserito la richiesta del pane quotidiano. E ha lasciato a noi la formula per implorare dalla Madre la grazia di una sua giusta distribuzione, in modo che nessuno dei figli rimanga a digiuno.
 

 

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letterina 20100530

L'affondo

 Maria, donna in cammino

Se i personaggi del vangelo avessero avuto una specie di contachilometri incorporato, penso che la classifica dei più infaticabili camminatori l'avrebbe vinta Maria.
Gesù a parte, naturalmente. Ma si sa, egli si era identificato a tal punto con la strada, che un giorno ai discepoli da lui invitati a mettersi alla sua sequela confidò addirittura: «Io sono la via». La via. Non un viandante!
Siccome allora Gesù è fuori concorso, a capeggiare la graduatoria delle peregrinazioni evangeliche è indiscutibilmente lei: Maria! La troviamo sempre in cammino, da un punto all'altro della Palestina, con uno sconfinamento financo all'estero.
Viaggio di andata e ritorno da Nazareth verso i monti di Giuda, per trovare la cugina, con quella specie di supplemento rapido menzionato da Luca il quale ci assicura che «raggiunse in fretta la città». Viaggio fino a Betlem. Di qui, a Gerusalemme per la presentazione al tempio. Espatrio clandestino in Egitto. Ritorno guardingo in Giudea col foglio di via rilasciato dall'angelo del Signore, e poi di nuovo a Nazareth. Pellegrinaggio verso Gerusalemme con lo sconto comitiva, e raddoppio del percorso con escursione per la città alla ricerca di Gesù. Tra la folla, ad incontrare lui errante per i villaggi di Galilea, forse con la mezza idea di farlo ritirare a casa. Finalmente, sui sentieri del Calvario, ai piedi della croce, dove la meraviglia espressa da Giovanni con la parola «stabat», più che la pietrificazione del dolore per una corsa fallita, esprime l'immobilità statuaria di chi attende sul podio il premio della vittoria.
Icona del «cammina cammina», la troviamo seduta solo al banchetto del primo miracolo. Seduta, ma non ferma. Non sa rimanersene quieta. Non corre col corpo, ma precorre con l'anima. E se non va lei verso l'«ora» di Gesù, fa venire quell'ora verso di lei, spostandone indietro le lancette, finché la gioia pasquale non irrompe sulla mensa degli uomini. Sempre in cammino. E per giunta, in salita.
Da quando si mise in viaggio «verso la montagna», fino al giorno del Golgota, anzi fino al crepuscolo dell'ascensione quando salì anche lei con gli apostoli «al piano superiore» in attesa dello Spirito, i suoi passi sono sempre scanditi dall'affanno delle alture.
Avrà fatto anche le discese, e Giovanni ne ricorda una quando dice che Gesù, dopo le nozze di Cana, «discese a Cafarnao insieme con sua madre». Ma l'insistenza con cui il vangelo accompagna con il verbo «salire» i suoi viaggi a Gerusalemme, più che alludere all'ansimare del petto o al gonfiore dei piedi, sta a dire che la peregrinazione terrena di Maria simbolizza tutta la fatica di un esigente itinerario spirituale.
 

 

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letterina 20100523

L'affondo

 Maria, donna di servizio

Può sembrare irriverente. E qualcuno avvertirà perfino odore di sacrilegio. Non saprei bene se per l'impressione di vedere un appellativo così povero attribuito alla Regina degli angeli e dei santi, o per la scarsa considerazione verso la categoria di coloro che si guadagnano il pane faticando in casa d'altri.
A dire il vero, anche il costume moderno ha ravvisato qualcosa di avvilente nel linguaggio antico: sicché, invece che parlare di serva o persona di servizio, il vocabolario, passando attraverso la trafila lessicale di domestica o cameriera, si trastulla con termini più alla moda, e parla di lavorante alla pari o, addirittura, di «colf», che poi non è altro che una sigla furbesca ricavata dalle iniziali di collaboratrice familiare. Eppure, quell'appellativo, Maria se l'è scelto da sola.
Per ben due volte, infatti, nel vangelo di Luca, lei si autodefinisce serva. La prima volta, quando, rispondendo all'angelo, gli offre il suo biglietto da visita: «Eccomi, sono la serva del Signore». La seconda, quando nel Magnificat afferma che Dio «ha guardato l'umiltà della sua serva». Donna di servizio, dunque. A pieno titolo. Un titolo che lei si porta incorporato per diritto di nascita e al quale sembra gelosamente tenerci come a un antico blasone nobiliare. Era o non era, se non proprio discendente come Giuseppe, almeno coinvolta con la «casa di Davide suo servo»?Un titolo che, durante il banchetto di Cana, visto che tra colleghi ci si  meglio, la autorizza a rivolgersi «ai servi» con quelle parole che, essendo rimaste un'esigente consegna anche per noi, sembrano un invito ad andarci a iscrivere tutti allo stesso sindacato: «Fate quello che vi dirà».
Eppure, quell'appellativo, così autoreferenziato, non trova posto nelle litanie lauretane! Forse perché, anche nella Chiesa, nonostante il gran parlare che se ne fa, l'idea del servizio evoca spettri di soggezione, allude a declassamenti di dignità, e sottintende cali di rango, che sembrano incompatibili col prestigio della Madre di Dio. La qual cosa fa sospettare che perfino la diaconia della Vergine sia rimasta un concetto ornamentale che intride i nostri sospiri, e non un principio operativo che innerva la nostra esistenza.
 

 

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