letterina 20111224

Il vasaio e l'argilla

Dio ricomincia da Betlemme. L’eternità si abbrevia nel tempo, il tutto nel frammento.
Anche la realtà di Dio ora sa di pane. È un Dio che non si impone, che ha bisogno.            

Il creatore non plasma più l’uomo con polvere dal suolo, dall’esterno, ma si fa lui stesso polvere plasmata, bambino di Betlemme e carne universale.
Geremia, che applica a Dio l’immagine del vasaio che “continuamente riprende in mano la sua argilla e non la butta via se un vaso riesce male, ma la lavora di nuovo” (Ger. 18,3-4), direbbe che il vasaio si è fatto non soltanto anfora, vaso fragile e bellissimo, ma che si è fatto creta, polvere del suolo, di questo suolo, di questa terra.
Il Verbo si è fatto carne”  (Gv 1,14), è scritto. Non solo si è fatto bambino, quel bambino; non solo si è fatto uomo, quell’uomo; ma si è fatto carne universale. Anzi nella suggestione del testo greco i due termini sono vicini, non separati da altre espressioni:
ho Lògos sàrx, e il Verbo carne si fece. Da allora la vicinanza è assoluta, c’è un frammento di Logos in ogni carne, c’è qualcosa di Dio in ogni uomo, ci sono un po’ di santità e molta luce in ogni vita. Il Natale è la certezza che la nostra carne in qualche sua radice è santa, che la nostra storia in qualche sua pagina è sacra. E nessuno può dire: qui finisce l’uomo, qui comincia Dio, perché Creatore e creatura sono abbracciati. Finito e infinito sono dentro di noi in miscela prodigiosa per la grandiosità dei progetti, per il vigore di trasformazione.  L’incarnazione non è finita, Dio “accade” ancora nella carne della vita, accade nella concretezza dei miei gesti, abita i miei occhi perché sappiano guardare con bontà e con profondità. Abita le mie parole perché abbiano luce.             
Abita le mie mani perché si aprano a dare pace, ad asciugare lacrime, a spezzare ingiustizie. Umiltà è la parola rivoluzionaria del Natale. Luce custodita in un guscio d’argilla. Paolo scrive a Timoteo: venendo nel mondo, “Cristo Gesù ha fatto risplendere la vita” (2 Tm 1,10). Bellissima metafora, nata da Paolo solitamente così povero di immagine: ha dato splendore all’esistenza, ha fatto risplendere il futuro e i nostri sogni, ha riacceso la fiamma delle cose, ha dato canzoni bellissime al nostro cuore, ha messo frammenti di stelle dentro il nostro sangue, parole forti e nuove corrono dentro le arterie del mondo.              

Buon Natale del Signore

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letterina 20111217

L'annuncio alla coppia

Secondo il Vangelo di Luca l’annunciazione è fatta a Maria; secondo il vangelo di Matteo l’annunciazione è fatta a Giuseppe . Se sovrapponiamo i due  vangeli, scopriamo che in realtà l’annuncio è fatto alla coppia, la vocazione è rivolta allo sposo e alla sposa insieme, dentro il matrimonio.
Dio parla a tutti e due, al giusto e alla vergine innamorati, che si sono promessi amore e fedeltà. Dio opera i suoi fatti più straordinari, lavora per un mondo nuovo, dentro la coppia, protagonista della vita nuova e protagonista dell’amore. Lavora dentro alle famiglie, dentro le nostre case, nelle dialogo, nel dramma, nella crisi, nei dubbi, negli slanci di una coppia già formata, laddove si creano quelle oasi di verità e di amore che sono come il collaudo del Regno, piccole oasi per contendere il cuore al deserto.
Dio non ruba spazio alla famiglia, non rompe la coppia, chiede e cerca questo doppio sì, un sì che diventa creativo proprio perché è condiviso, in cui si sommano due cuori, molti sogni e moltissimo lavoro.
La comunione è una forza creativa, perché la coppia è molto più che la somma di due  solitudini, è l’immagine di Dio. Non è l’uomo, non è la donna l’immagine di Dio. Immagine e somiglianza, riflesso del volto del Creatore, è la coppia.  
Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo crèo;
maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro:
“Siate fecondi e moltiplicatevi”. (Gen. 1,27-28)  

La coppia, custode dell’immagine, la coppia con il suo amore e la sua capacità di dono, la coppia cui è affidata la vita, la coppia senza il cui coraggio neanche Dio avrebbe dei figli, la coppia maschio e femmina è la destinataria della prima benedizione; su di essa riposa la madre di tutte le benedizioni bibliche.
La coppia è benedizione; è non solo l’immagine del Creatore, ma di più: è immagine della Trinità, di un Dio il cui mistero vibra di un infinito movimento d’amore, che è in se stesso scambio, reciprocità, dono, comunione, vita che dà vita, Trinità.

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letterina 20111210

Betlemme e il muro

Per entrare a Betlemme si passa il Muro. Ce lo si trova addosso all'improvviso, incombente. Nove metri di un livido grigio. I soldati israeliani sono giovanissimi. Impugnano le armi a tracolla e li vedi pronti a ogni evenienza. Uno controlla il telaio dell'auto con uno specchio attaccato a un bastone, per verificare che non ci siano ordigni. Un altro fa aprire i bagagli. «Devo aprire anche il mio zaino?», chiede il bambino. Incrocio i suoi occhi che fissano i fucili, e nello sguardo c'è un balenio di profondo stupore. Quei tre soldati, hanno davvero facce da ragazzi. «Ma quanti anni avranno?», chiede mio figlio. «Magari diciotto. Forse sono di leva», rispondo. Betlemme ha la metà delle botteghe e degli alberghi chiusi. Con il Muro, il 50% della popolazione è disoccupata. Chi può, se ne va.
«Qui, ora, è come essere in prigione», dice amaro padre Amjed Sabbara, parroco della città. È quasi vuoto il piazzale della basilica, con la piccola porta che fu abbassata perché i turchi non entrassero a cavallo, con sacrilega arroganza. Perché si chinassero, nell'entrare, i pellegrini. Dentro, si allarga la penombra e il profumo d'incenso dell'antica basilica crociata. Ma è giù, giù la grotta, e ti tira per mano tuo figlio impaziente, giù per le scale, fino alla volta sotterranea, fino alla nicchia dove una stella a 14 punte - come le generazioni della casa di Davide - segna l'alfa, l'inizio, l'epicentro dove andarono convergendo i pastori, quella notte. E un bambino di dieci anni, duemila anni dopo, istintivamente fa ciò che - è probabile - fecero quegli uomini, venuti dai pascoli del deserto a vedere.
Prima, Bernardo guarda. Poi, allunga la mano, a toccare. Chissà quante mani, quella notte, si allungarono timide, esitanti, verso quel Re che sembrava un bambino... Ma l'episodio che dà la misura di quanto Betlemme non sia quell'immagine stereotipata e dolce che molti immaginano è il Muro, come una coltellata, una lacerazione aperta. Betlemme, non è il luogo sentimentale e buonista, a cui una certa abitudine l'ha ridotto. Un posto del mondo invece, un posto aspro, dove gli uomini sono come gli altri, dove ci si odia come altrove, e anche di più. In cui però, uomo tra gli uomini, è nato Gesù Cristo. E gli uomini duemila anni dopo vanno a vedere: e ancora allungano la mano, istintivamente, come bambini, a toccare.

Marina Corradi

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letterina 20111203

Davide di Betlemme

Davide era un giovane di bell’aspetto, intelligente e coraggioso.  
Suo padre, Isciai, di Betlemme, resosi conto della sua serietà, affidò a lui, per quanto fosse il più giovane fra i suoi figli, le cure  del gregge, e Davide vi si dedicava con grande amore.
Si alzava all’alba e, dopo aver recitato le preghiere prendeva il sacco e il bastone (con uno zufolo a una delle due estremità) e, aperto  l’ovile, usciva col gregge al pascolo.
Davide andava dietro al gregge senza perderlo d’occhio un solo istante: seguiva con cura gli agnellini, perché non restassero  indietro, e li prendeva sulle spalle quando li vedeva stanchi.  
Giunto al luogo del pascolo si dava da fare perché anche i più giovani trovassero il loro nutrimento: strappava per loro l’erba e lui stesso li imboccava: Si racconta che una volta Davide non fosse riuscito a trovare, per il pascolo, che un campo di sterpi e di erbacce e, per timore che le pecore più grandi mangiassero il meglio e non restasse nulla per le altre mandò per primi gli agnelli, perché mangiassero la parte più tenera dell’erba; solo quando gli sembrò che si fossero nutriti abbastanza fece andare sul campo le pecore più vecchie e, per ultime, fece entrare quelle giovani che, coi loro denti forti, avrebbero potuto mangiare senza fatica anche gli steli. Con questa trovata riuscì a saziare l’intero gregge e il Signore apprezzò a tal punto il suo operato, che decise di affidargli, anziché la cura del gregge paterno, la cura di tutto il popolo. 

S.Skulski, Re David, Leggende

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letterina 20111126

Memoria, invocazione, attesa


Entriamo nel tempo dell’avvento, il tempo della memoria, dell’invocazione e dell’attesa della venuta del Signore. Lo viviamo anche come seconda tappa del nostro itinerario pastorale, guidati dall’invito: Tocca con mano il Dio che si fa Bambino, il Dio che si fa pane.  Di pane parleremo molto, giungendo a Betlemme, casa-del-pane.

Tuttavia, questo tempo non ci deve far dimenticare che il credente attende la venuta del suo Signore, in “quel  giorno”  annunciato da tutti i profeti;  Gesù stesso più volte ha parlato della sua venuta nella gloria quale Figlio dell’Uomo, per porre fine a questo mondo e inaugurare un cielo nuovo e una terra nuova.  

Per molti l’Avvento è una semplice preparazione al Natale, quasi che si attendesse ancora la venuta di Gesù nella carne della nostra umanità e nella povertà di Betlemme.  Ingenua regressione devota che depaupera la speranza cristiana!
In verità, il cristiano ha consapevolezza che se non c’è la venuta del Signore nella gloria allora egli è da compiangere più di tutti i miserabili della terra (cf. 1Cor 15,19, dove si parla della fede nella resurrezione), e se non c’è un futuro caratterizzato dal novum che il Signore può instaurare, allora la sequela di Gesù nell’oggi storico diviene insostenibile. Un tempo sprovvisto di direzione e di orientamento, che senso può avere e quali speranze può dischiudere?  

In questi giorni di Avvento occorre dunque porsi delle domande: noi cristiani non ci comportiamo forse come se Dio fosse restato alle nostre spalle, come se trovassimo Dio solo nel bambino nato a Betlemme? Sappiamo cercare Dio nel nostro futuro avendo nel cuore l’urgenza della venuta di Cristo, come sentinelle impazienti dell’alba? E dobbiamo lasciarci interpellare dal grido più che mai attuale di Teilhard de Chardin: “Cristiani, incaricati di tenere sempre viva la fiamma bruciante del desiderio, che cosa ne abbiamo fatto dell’attesa del Signore?”.

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letterina 20111119

Venite  adoremus

“Venite adoremus” canteremo molte volte nei giorni magici del Natale, ritmando le note di un antichissimo canto,“Adeste fideles”.
E allora, non siamo un po’ in anticipo con i tempi?
Assolutamente no!
Infatti, vivremo l’Avvento cercando di “impastare” questo tempo proprio come si impasta il pane, per celebrare con maggior consapevolezza l’evento che si fa storia a Betlemme, casa-del-pane. La magia allora, potrà esser data da luminarie, regali,  caminetti accesi, neve e pastorali, ma la verità della festa arriverà da quel Dio che, facendosi bambino, si dona come pane di vita.
E noi l’abbiamo già, questo pane!
Venite adoremus, Venite adoriamo: ecco l’invito, non già per il Natale, ma per tutto l’Avvento.  
Questa la proposta:  
Ogni Domenica d’Avvento (come ormai è tradizione nei tempi forti) vivremo l’adorazione eucaristica dalle 17.00 alle 18.00, scandendo l’ora con preghiere, riflessioni, invocazioni...scritte lungo la settimana sul quaderno all’ingresso della chiesa parrocchiale.
Ogni giorno, un’ora di adorazione, ad orari diversi (per favorire il più possibile tutti, lavoratori e pensionati, casalinghe e giovani, famiglie e ragazzi), Dal primo lunedì, dalle 6.00 alle 7.00 e poi avanti,  il martedì dalle 7.00 alle 8.00, il mercoledì dalle 8.00 alle 9.00...secondo lo schema che verrà comunque riportato ogni settimana sulla LetteRina.
Riusciremo a giungere a Natale avendo fatto TUTTI ALMENO UN’ ORA ?
E ricordiamo sempre ciò che Gesù dice ai suoi amici nell’orto degli ulivi:” Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me?”  Mt 26,40
Sarà vero anche il canto “Adeste fideles...Venite adoremus…”   

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