letterina 20120609

Famiglia, patrimonio dell'umanità

Bresso E il suo milione di persone. E le centinaia e centinaia di migliaia che, da Piazza Duomo a San Siro, hanno accompagnato la tre giorni milanese di Papa Benedetto, nella visita alla diocesi e nell’incontro col Family 2012. A voler riassumere il tutto sbrigativamente, e in una sola parola, potrebbe perfino essere facile: “Trionfo”.
Ma l’evento vissuto da Milano non può, non deve, ridursi a se stesso...perchè quella che è emersa con una forza tanto evidente quanto travolgente è l’immagine e il senso della “Chiesa del si”. Distante dalle rappresentazioni che se ne fanno comunemente, non arroccata su “precetti” che ne dettano il senso, bensì fondata sulla roccia e protesa verso il domani, propositiva, accogliente, attenta, concreta. Capace di dire e di fare. Felice, anche: dove la felicità non vuol dire ignorare i problemi, tenti, che esistono, e far finta che neppure ci sfiorino, ma affrontarli a viso aperto, forti di quella “speranza che non delude” che, ai cristiani, viene dalla fede. Consapevoli però, nello stesso tempo, che questa “speranza che non delude” ha qualcosa da dire, eccome, anche a un mondo laico che abbia voglia, finalmente, di misurarsi in un confronto vero sul filo non
dei preconcetti, ma della ragione.
Ri-proponendo le ragioni di una famiglia che va messa al centro della società, rivolgendosi ai politici chiamati a mettere un “più” amore nel loro impegno, ribadendo quei “valori non negoziabili” – vita, famiglia, educazione devono essere scambiati per “verità di fede”, come disse esplicitamente nel 2006, proclamandoli, ma che “sono iscritti nella natura umana stessa e quindi sono comuni a tutta l’umanità”. Provocazione forte, quella del Papa, all’intelligenza e alla cultura. Così come altrettanto forte è quella che Benedetto xvi, una volta di più, ha rivolto ai cristiani, “sfidandoli” a una testimonianza chiara, cristallina, che sempre più ha bisogno di essere radicata nella fede per essere credibile, agli occhi del mondo e a quelli della stessa comunità dei credenti rispetto ai propri problemi, che esistono – vedi la situazione dei divorziati risposati – e che devono sempre trovare la via della solidarietà, dell’accoglienza, dell’amore.

 

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letterina 20120602

Family 2012

Un “grande evento” che per la prima volta, in Italia, non si celebra nella capitale; un interlocutore, la famiglia, a cui dare quella centralità troppo spesso negata; un tema che porta in se un binomio, lavoro e festa, di estrema attualità. Il VII Incontro mondiale delle famiglie La famiglia: il lavoro e la festa, ha un preciso obiettivo: riscoprire la famiglia come “patrimonio di umanità” e rimetterla al centro dell’attenzione non solo ecclesiale, ma dell’intera società.
A tre anni dal precedente Incontro mondiale, (Città del Messico gennaio 2009), il Papa è tornato a chiamare a raccolta le famiglie, e lo ha fatto con una lettera inviata nell’agosto 2010 all’allora arcivescovo di Milano, cardinal Dionigi Tettamanzi, e al presidente del Pontificio consiglio per la famiglia, cardinal Ennio Antonelli. <<Il lavoro e la festa – scrive Benedetto XVI – sono intimamente collegati con la vita delle famiglie: ne condizionano le scelte, influenzano le relazioni tra i coniugi e tra i genitori e i figli, incidono sul rapporto della famiglia con la società e con la Chiesa. La Sacra Scrittura (cfr Gen 1-2) ci dice che famiglia, lavoro e giorno festivo sono doni e benedizioni di Dio per aiutarci a vivere un’esistenza pienamente umana. L’esperienza quotidiana attesta che lo sviluppo autentico della persona comprende sia la dimensione individuale, familiare e comunitaria, sia le attività e le relazioni funzionali, come pure l’apertura alla speranza e al Bene senza limiti>>.
Papa Ratzinger ha ben presente la realtà contemporanea, il fatto che ai nostri giorni l’organizzazione del lavoro, pensata e attuata in funzione della concorrenza di mercato e del massimo profitto, e la concezione della festa come occasione di evasione e di consumo contribuiscano a disgregare la famiglia e la comunità e a diffondere uno stile di vita individualistico. <<Occorre perciò – precisa il Santo Padre – promuovere una riflessione e un impegno rivolti a conciliare le esigenze e i tempi del lavoro con quelli della famiglie e a recuperare il senso vero della festa, specialmente della domenica, pasqua settimanale, giorno del Signore e giorno dell’uomo, giorno della famiglia, della comunità e della solidarietà>>. Proprio a tal fine << Il prossimo Incontro mondiale delle famiglie costituisce un’occasione privilegiata per ripensare il lavoro e la festa nella prospettiva di una famiglia unita e aperta alla vita, ben inserita nella società e nella Chiesa, attenta alla qualità delle relazioni oltre che all’economia dello stesso nucleo familiare>>.

 

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letterina 20120526

Perchè serve un giorno di festa

Le polemiche sull’apertura di negozi e centri commerciali alla domenica e nelle festività civili come il 25 aprile o il 1° maggio ci porta a riflettere su una delle grandi conquiste registratesi in occidente, grazie soprattutto all’ebraismo e al cristianesimo: l’affermazione di un giorno settimanale - il sabato per gli ebrei, il giorno dopo, la domenica, per i cristiani - come giorno di riposo per tutti, tempo di festa condivisa e anche di assemblea per i credenti, che insieme confessano la loro fede e celebrano il culto al Signore nel quale mettono la loro speranza. Un giorno di tregua al neg-otium, al tempo che «nega l’ozio», per dedicarsi appunto all’ otium che non è il «far niente» della pigrizia, ma una presa di distanza dalla propria opera, un antidoto all’alienazione possibile anche nel lavoro... Oggi sentiamo invece ripetere con enfasi le ragioni economiche : occorre dinamizzare l’economia, incentivare i consumi, ottimizzare l’utilizzo delle strutture... Ma avere un giorno di festa condiviso non risponde solo al bisogno di riposo, ma alla necessità umana di riconoscere e sottolineare motivi comuni per fare festa insieme:
ricorrenze religiose, certo, ma anche festività civili, memorie di eventi che hanno segnato la storia di una società. Se viene a mancare il giorno di festa per tutti, la stessa coesione civile ne è intaccata, le leggi commerciali diventano più forti delle dimensioni conviviali e relazionali, delle famiglie, delle amicizie, delle esigenze spirituali non solo dei credenti, ma di quanti pensano e cercano vie di umanizzazione:
la società è sempre più atomizzata... Costruire se stessi, aver cura di se stessi e di quanti ci sono cari, vivere la propria storia d’amore facendo cose insieme, vedendo cose insieme, scrutando insieme orizzonti nuovi e antichi è assolutamente necessario: ne va della qualità della vita. Davvero la festività condivisa è strumento per l’umanizzazione di ciascuno, credente o no...Se i cristiani ripetono le parole degli antichi martiri: «Senza domenica non possiamo vivere!», assieme agli altri uomini possono affermare: «Senza riposo e senza un giorno di festa per tutti non possiamo vivere!».

Enzo Bianchi

 

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letterina 20120519

Tavola e comunione

Se c’è “casa”, molte cose ruotano attorno alla tavola. Anzitutto si strutturano intorno ad essa i “riti del pasto”, delicatissime soglie di dipendenza e di comunione, di con-vivenza e di autosostentamento. La comunione e la comunicazione si intrecciano: mangiare e parlare, parola e pasto sono analoghi e correlati. Il pasto solitario o la parola che non si lascia nutrire dall’altro, sono degenerazioni dell’esperienza familiare, oggi intaccata profondamente dalle pratiche televisive e dalla divisione dei tempi di lavoro. La “pausa pranzo” non riesce mai ad essere pienamente festiva: ma un pranzo ridotto ad autosostentamento significa mangiare la propria condanna. Le tradizioni monastiche hanno percepito la delicatezza di questa soglia, trasformando il pasto in un atto di ascolto silenzioso. Il pasto intorno alla tavola è un surplus comunicativo, tanto necessario quanto la funzione elementare del “mantenersi in vita”. Ma la fame, nell’uomo, non è quella “di solo pane”. Chi mangia insieme vive insieme, e, reciprocamente, per vivere insieme bisogna mangiare insieme. Intorno alla tavola si gioca una parte non secondaria della nostra “convivenza”. Anche quando alla tavola giunge l’altro, l’ospite, lo straniero.
D’altra parte invitare alla propria tavola (l’invito a pranzo) è un terreno delicatissimo di relazioni che cambiano... Nel mangiare presso qualcuno facciamo l’esperienza di “ringraziare per la vita donata”. Solo a mani vuote posso entrare nella logica di “totale dipendenza” dall’altro. La cura per l’accoglienza dell’ospite comincia sempre da una preparazione di cibi, perché possa sostentarsi a suo agio. Percepire la tavola di una casa come luogo delicato e prezioso in cui la comunione verso l’interno e verso l’esterno si gioca nel “presentare e consumare cibi” costituisce una risorsa decisiva per la vita spirituale.
Proprio perché elementare, ha bisogno di un grado superiore di attenzione e di esercizio, in cui dar prova di virtù e di stile.
Anche nella festa di Prima Comunione c’è qualcosa di tutto questo...

 

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letterina 20120512

Ai piedi di Dio (2)

Il secondo termine è <<supplica>> (il primo era preghiera, sulla Rina scorsa)
La radice latina del termine (plec) si esprime in un verbo, plecto, in cui è contenuta l’idea di piegare, e che dà origine a numerosi aggettivi: sem-plice, piegato una volta sola; du-plice, piegato due volte; com-plice, piegato insieme, legato, implicato. A questo gruppo appartiene anche il termine sup-plice, che indica colui che è piegato ai piedi di ...
Supplicare vuol dire allora prendere la posizione del supplice, di colui che si china per toccare i piedi o le ginocchia di una persona. Lo si capisce da un’usanza di guerra che conosciamo attraverso l’epopea omerica: colui che, incalzato dal nemico, sta per essere ucciso, deve, per aver salva la vita, cingere le ginocchia del suo avversario prima che l’altro, nella foga della battaglia, l’abbia ferito. Arrivare a toccare le ginocchia voleva dire aver salva la vita.
Salvezza della vita è toccare Dio, piegarsi insieme a lui, intrecciarsi con lui.
La preghiera non consiste quindi in una seria di richieste, ma nel toccare Qualcuno che, a ogni mia supplica, si piega su di me, intreccia il suo respiro con il mio respiro, i suoi passi con i miei passi. Non so se Dio esaudirà, ma so che è coinvolto, è implicato. Ed è salva la vita.
Tutte le storie di salvezza nascono da una frattura che grida di essere ricomposta, da una lontananza che domanda di essere annullata. La preghiera porta in sè l’eco di una domanda di matrimonio, una radice di comunione; la supplica è chinarsi fino a toccare i piedi di Dio, e vederlo implicato nel mio andare e respirare.
Un giorno alcuni discepoli chiesero al loro maestro: <<Perchè una volta i santi parlavano con Dio faccia a faccia e oggi più nessuno riesce a vedere il suo volto?>>. Rispose il maestro: <<Perchè oggi nessuno sa più chinarsi così profondamente. Sul proprio intimo>>.

(da: Come un girasole di E. Ronchi)

In questa settimana abbiamo le GIORNATE EUCARISTICHE un’occasione
per vivere la PREGHIERA e la SUPPLICA...
Metti in cantiere un tempo di ADORAZIONE.

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letterina 20120505

Ai piedi di Dio (1)

Gli uomini sono andati a cercare lontano, molto lontano, le parole più adatte per esprimere il senso della preghiera. Le hanno cercate dalla parte della vita e non dei concetti. Studiare la radice e l’origine delle parole è come perforare strati successivi di stori, risalire il fiume dei millenni fino a giungere al momento sorgivo.
Così accade con due parole legate all’esperienza religiosa universale:
<<preghiera>> e <<supplica>>.

La parola <<preghiera>> deriva da una radice latina (prex) che indica una domanda fatta per ottenere qualcosa.
La sorpresa nasce quando cerchiamo di intuire che cosa esattamente soggiace alla domanda.
Ce lo rivela il termine latino procus, che ha la medesima origine: si tratta di colui che rivolge una domanda – preghiera al padre di famiglia, una richiesta particolare:
chiede una figlia in matrimonio. L’obiettivo del procus, lo scopo della sua richiestapreghiera non è ottenere delle cose, ma raggiungere una persona. E non una persona qualsiasi, ma la persona amata. La parola preghiera ha radici fragranti che parlano di qualcosa – una donna, una figlia, una creatura, un Dio- che piace al punto tale da volersi unire a esso; racconta di una ricerca amante, di una bellezza desiderata, di un eros primigenio fuoco e forza della vita. All’origine della parola preghiera, allora, affiora l’eco di un innamoramento, che è un’esperienza mistica allo stato selvatico, forse l’unica esperienza mistica che a tutti, in qualche modo e in qualche tempo della vita, è dato di compiere. E in cui echeggia il vangelo: <<Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito>> (Gv 3,16). Gli uomini hanno sentito che l’esperienza d’amore e l’esperienza del sacro sono strettamente legate e lo hanno espresso adottando il medesimo vocabolario. Come è accaduto per il Cantico di Cantici, dove il racconto dell’amore tra un uomo e una donna diventa la narrazione dell’amore tra Dio e la creatura. <<Guarda con amore alla tua chiesa>>, prega la liturgia. Guarda con amore, nient’altro, ma è già tutto.

(da: Come un girasole di E. Ronchi)

Continua la prossima settimana con “supplica

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