Una società senza un Cielo verso cui tendere si trasforma ben presto in una società erratica, simile a quella dei grandi mammiferi erbivori che si spostano in grandi branchi alla ricerca di cibo migliore. Si bruca un po’ qui, si bruca un po’ la’, secondo la fortuna. Ma una società siffatta – che emigra costantemente perchè non ha un orizzonte stabile – è una società che non è più in grado di costruire. Non palazzi, macchine, industrie, cose – delle quali, anzi, ha una produzione ipertrofica – ma di edificare quell’unica realtà che per l’uomo ha senso. Il tempo. Aver cancellato Dio dai nostri pensieri ci ha messi improvvisamente fuori dal tempo. E mettersi fuori dal tempo vuol dire mettersi fuori dal mistero dell’esistenza. Che cos’è infatti la vita dell’uomo? E’ uno squarcio di luce tra due abissi oscuri. Veniamo da qualcosa di misterioso e andiamo verso qualcosa di altrettanto misterioso, di ignoto, di terribile. Qualcosa la cui stessa esistenza ferma il respiro anche alle persone più credenti. Da dove veniamo? Dove andiamo? E – tra questi due estremi – che senso ha quel breve atto che siamo chiamati a recitare sul palcoscenico delle vita? L’uomo è una creatura anfibia, un essere, cioè che si trova costantemente a vivere due dimensioni – quella della terra e quella del cielo. Quest’idea – l’idea che siamo sospesi tra un Padre, che è il Cielo e una Madre, che è la Terra – non è imposta dal potere della Chiesa o da qualche altra dogma religioso, ma appartiene, in forma diversa, a tutte le culture del mondo perchè riguarda la natura stessa dell’uomo. Quella natura che oggi troppo spesso, e con troppa facilità, si vuole negare. E’ la nostra stessa formazione fisiologica che ci parla di questa natura. Noi soli, infatti, tra gli animali, abbiamo assunto una posizione verticale, come gli alberi. I piedi, quali radici, stanno sulla terra e reggono il resto del corpo che si spinge verso l’alto, la luce, verso il Cielo, appunto... La degenerazione spirituale dell’uomo si trasforma lentamente in degenerazione fisica. Non tendiamo più a essere simili agli alberi – come costantemente ci ricordano le Scritture – ma piuttosto, con un’evoluzione che sembra un’involuzione, torniamo a somigliare ai nostri cugini pongidi, le grandi scimmie.
Da Susanna Tamaro, L’isola che c’è
|