letterina 20111112

Cioè, problema, crisi ...

Una delle parole più presenti nel nostro lessico quotidiano, insieme a “cioè” e a “problema”, è “crisi”. Nell’accezione più comune di rottura, discontinuità, instabilità, incertezza, difficoltà, il termine appartiene alla tradizione medica.
Come traslato poi passa alla filosofia, quando si parla di epoche critiche e di crisi del mondo moderno. L’affermazione e il successo di questa parola sono cresciute in maniera esponenziale nella contemporaneità dove c’è crisi di tutto. Oggi, il termine ha finito per perdere completamente il suo significato originario e indica, per tornare alla metafora medica, un disagio che si è cronicizzato, una condizione che non si risolve: la crisi di oggi può accompagnare un uomo per tutta la vita e una società per la durata di un’epoca. E’ facile anche accorgersi che questa parola nella storia del pensiero occidentale viene a occupare il posto lasciato vuoto da Dio. E’ sintomatico infatti che la sua più alta frequenza si verifichi con il diffondersi e l’affermarsi di filosofie e stili di vita che mettono in discussione e negano ogni realtà di Dio. “Crisi” è diventata il surrogato di un’assenza, la spia di un disagio diverso da quello che si crede di indicare quando si parla genericamente di crisi. L’uomo moderno è andato in crisi non solo perché non è più capace di riconoscere i segni di Dio nella sua vita e di ascoltare la sua Parola, ma anche perché è venuto meno quella relazione che poneva di fronte la creatura e il suo Creatore. Se l’uomo ignora e non riesce più a riconoscersi parte di questo  rapporto con un’Alterità che lo sostiene e governa, sentirà, come oggi spesso accade, la sua avventura nell’universo come un’esperienza solitaria e titanica, soggetta a mille variabili, sostanzialmente precaria e minacciata; il cosmo si trasformerà, malgrado tutte le scienze e le tecniche, in caos; le forze di natura saranno sentite come immani e distruttive. Lentamente scivolerà nella crisi perchè tutto in questo mondo torna e ricade sempre e solo sull’uomo. E l’uomo è schiacciato da questa responsabilità, che va oltre la finitezza del suo essere creatura. La crisi è questo sapere che non possiamo dominare non solo i grandi eventi della vita, ma anche le piccole catastrofi di cui sono pieni i nostri giorni.
Critico è questo tempo di solitudine in cui abbiamo scelto di non dipendere da nessun altro; critico è questo tempo che è diventato di frustrazione e di chiusura che non riesce più a parlare con Dio e a sentirsi opera delle sue mani.

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letterina 20111105

Il rombo di una moto

Durante i funerali di Marco Simoncelli, in chiesa è stato fatto rombare il motore della sua moto». Perché l'han fatto? La risposta l'aveva in qualche modo già data lui stesso: «Si vive di più andando cinque minuti al massimo su una moto come questa, di quanto faccia certa gente in una vita intera». Ma il ruggito di quel motore era il ruggito della morte stessa: non gesto di vitalità, di potenza, di gloria ma drammatico segno di un potere che uccide l'eroe e gli fa sopravvivere le cose che ha posseduto o l'hanno posseduto. Ciò che è avvenuto nel paesino del giovane campione romagnolo dice molto del rapporto che oggi si ha con la morte: rapporto di arroganza, sventatezza e sfida che in troppi lanciano all'avversario più forte, come se solo il gesto estremo, folle e temerario potesse riscattare e nobilitare la sorte già segnata. Rapporto di gioco, persino di scherno come dimostra il fenomeno di halloween e dintorni, nel tentativo di prendersi una qualche rivincita su colei che è destinata a vincere sempre la partita della vita. Rapporto di oblio con il corpo incenerito disperso nella natura, nel tentativo di auto convincersi che in fondo non si muore, ma ci si trasmuta in altro. Rapporto infine di illusione e di finzione, con ragionamenti così logici da riuscire a negare persino l'evidenza: «La morte non esiste, perché quando c'è lei, non ci sono io e quando ci sono io, lei non c'è».
Non solo: il pensiero della morte che per secoli è stato associato alla sapienza (Salmo 90,12: «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore»), oggi è semplicemente rimosso e l'argomento è considerato tabù fra persone ben educate. Diverso, anzi addirittura opposto è stato nei secoli l'atteggiamento che la fede cristiana ha insegnato a tenere nei confronti della morte: l'invito pressante a meditare sulla fine («Medita sulle realtà ultime e non peccherai più») non aveva – e non ha – la finalità di creare paura o angoscia, ma serenità e libertà perché aiutava a ridimensionare tante preoccupazioni e problemi e a vivere nella consapevolezza dei propri limiti…      

Da un articolo di don Davide Rota

 

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letterina 20111030

Muro e speranza

Un muro resta sempre in piedi, muro contro il quale ciascuno si scontra e che minaccia di frantumare il nostro sogno di felicità: la morte. Non c’è nulla di più certo del fatto che un giorno moriremo. E’ d’altronde l’unica cosa di cui siamo assolutamente sicuri per quanto riguarda il nostro avvenire. “La morte è l’ultimo nemico”, dice san Paolo (cf.  ICor 15,26).
Ma la fede ci assicura che la vita che conduciamo quaggiù è solo il primo atto di una vita che durerà eternamente oltre la morte. Questo lo sappiamo unicamente dalla fede. Su questo punto, nessuna saggezza dei popoli, nessuna filosofia di grandi pensatori può dare qualche aiuto. Si tratta di pura fede: “Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti” (ICor 15,19). E Paolo lo grida talmente forte da rintronare gli orecchi: “La morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”.
Ci è possibile qualcosa d’altro, se non sperare? E di una speranza “divina”, fondata su Dio e sulle sue promesse? La speranza è il muscolo cardiaco del cristiano, ma non è uguale a utopia. Di utopie ne abbiamo avute molte, ma sono tutte crollate una dopo l’altra. Perché continuare a cercare nei sogni che ci siamo suggeriti noi stessi, il trampolino per il salto nell’ignoto? In ogni utopia siamo noi i garanti della speranza, essa non può venirci da altrove. Non può che appoggiarsi su degli esseri umani, e gli esseri umani hanno solo promesse umane, non promesse divine. La speranza “divina” poggia su un fatto: la risurrezione di Cristo dai morti. Questo non è un sogno, una fiaba, un racconto mitico,  ma un fatto storico attestato da testimoni degni di fede. “Abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti”, dicevano gli apostoli (cf. At 10,41). La nostra speranza poggia su dei fatti ed è interamente basata sulla potenza di Dio.

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letterina 20111023

Come il Padre ha mandato me...

Andate e annunciate
Questo obiettivo viene continuamente ravvivato dalla celebrazione della liturgia, specialmente dell’Eucaristia, che si conclude sempre riecheggiando il mandato di Gesù risorto agli Apostoli: “Andate…” (Mt 28,19).
La liturgia è sempre una chiamata ‘dal mondo’ e un nuovo invio ‘nel mondo’ per testimoniare ciò che si è sperimentato: la potenza salvifica della Parola di Dio, la potenza salvifica del Mistero Pasquale di Cristo.
Tutti coloro che hanno incontrato il Signore risorto hanno sentito il bisogno di darne l’annuncio ad altri, come fecero i due discepoli di Emmaus.
Essi, dopo aver riconosciuto il Signore nello spezzare il pane, «partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme dove trovarono riuniti gli Undici» e riferirono ciò che era accaduto loro lungo la strada (Lc 24,33-34). Il Papa Giovanni Paolo II esortava ad essere “vigili e pronti a riconoscere il suo volto e correre dai nostri fratelli a portare il grande annunzio: “Abbiamo visto il Signore!”» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 59).


A tutti
Destinatari dell’annuncio del Vangelo sono tutti i popoli. La Chiesa, «per sua natura è missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre» (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Ad gentes, 2). Questa è «la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare» (Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 14). Di conseguenza, non può mai chiudersi in se stessa. Si radica in determinati luoghi per andare oltre. La sua azione, in adesione alla parola di Cristo e sotto l’influsso della sua grazia e della sua carità, si fa pienamente e attualmente presente a tutti gli uomini e a tutti i popoli per condurli alla fede in Cristo (cfr Ad gentes, 5).

Dal Messaggio del Santo Padre per la 85 Giornata Missionaria Mondiale

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letterina 20111015

AAA...ADOLESCENTI cercasi

Torno dall’Oratorio, lunedì sera, il secondo degli incontri degli adolescenti.
Provo una strana sensazione, un misto di amarezza e delusione.
Era simile a quella di lunedì scorso, ma, essendo la prima volta, con i catechisti ado ci eravamo detti : “non l’avranno saputo tutti, Facebook utilizzato per l’invito non sarà stato azzeccato, avranno già tanti compiti, non avranno voglia, non si sentono sicuri a uscire di sera… Ora, il numero non è aumentato, anzi, alcuni che c’erano l’altra volta, a questa mancavano; li abbiamo visti solo al termine: tre nel bar del paese, due sullo scooter a pomiciare, uno puntuale là dove il papà in macchina viene a prenderlo dopo l’incontro (al quale lui non c’era), altri due ai primi approcci col fumo…
Mancavano pressoché tutti quelli del primo anno dopo le medie; pochi del secondo (quello al quale guardiamo anche con una certa attenzione essendo i primi con i quali abbiamo spostato la terza media al sabato e proposto la promessa d’impegno); qualcuno dei più grandi.
Ne abbiamo visti tanti alle iniziative estive, alla festa di Comunità (nella quale si sono anche dati da fare) e al Cre; e proprio nella formazione di questo appuntamento, ricordiamo sempre che il Cre non è un fungo estivo: c’è un prima, nel quale si fa un percorso, si approfondiscono alcuni temi, ci si confronta; e c’è un dopo, nel quale continuare con uno stile. In alcune parrocchie e oratori è stata fatta una scelta decisa: chi non partecipa durante l’anno ai gruppi di formazione e/o animazione, non viene accolto per fare l’animatore del Cre, vedendo nelle diverse iniziative il necessario apprendistato, non solo per fare l’animatore, ma per esserlo. Qui siamo proprio in questo dopo che è anche un prima.
Del resto, come si può animare se non si ha nulla da dare?
Potremmo valutare anche noi questa possibilità, non certo come ricatto, ma come un aprire gli occhi su qualcosa di prezioso. Ma, senza arrivare lì, sarebbe interessante arrivare a capire che un’ora la settimana per un cammino condiviso, ci può stare tutta, senza sconvolgere orari, compiti, risultati scolastici…anzi!
Forse, anche una parola da parte dei genitori (ai quali sono rivolti tre martedì di ottobre sul tema dell’adolescenza) non guasterebbe, perché non si educhi solo a ricevere, ma anche a dare: tempo, energie, passione per la vita e, perché no, anche per la fatica necessaria per crescere.

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letterina 20111008

Q come Quotidiano

In una sorta di vocabolario del cristianesimo, sotto la  Q  potremmo mettere la parola quotidiano, con la quale possiamo leggere la prima tappa del nostro cammino pastorale: Entra nel profumo delle quotidianità. E non c’è bisogno né di forzarla né di stirarla: per quanto umile e dimessa – o proprio per questo? – essa incrocia i misteri centrali nella nostra fede. Provare per credere. La Trinità: “Io oggi ti ho generato”, dice il Padre al Figlio. L’incarnazione: “Oggi è nato il Salvatore”, cantano gli angeli a Natale. La morte del Crocifisso: “Oggi  sarai con me in paradiso”, promette Gesù al ladrone pentito. La resurrezione, che non relega Cristo nel passato, ma lo rende presente sotto qualsiasi cielo, in qualunque giorno della storia: “Io sono con voi tutti i giorni…”.Ma questa parola fa parte anche del nostro vocabolario. Troppe volte rischiamo di avere  –  e di dare!  – un’immagine distorta del cristianesimo: come se fosse un’accozzaglia di tante cose da fare, una somma interminabile di impegni da assumere, una minutaglia sparpagliata di regole e di precetti da osservare. Non è questa la logica dell’incarnazione.  “Il mistero dell’incarnazione di Dio nella storia conferisce alla vita una “grandezza religiosa”: un orizzonte incommensurabile si apre sul quotidiano, che diventa luogo dell’incontro con Dio, sacramento continuo della sua presenza. Sono contenute qui anche le dimensioni del nostro impegno: vivere fedeli al Signore Gesù significa ripetere nella nostra vita la sua vita, con la stessa radicalità e semplicità”. Da ripetere: radicalità e semplicità. Il vangelo del quotidiano si colloca proprio a questo incrocio. Il cristianesimo non è una proposta eccezionale per persone straordinarie, e la carità – che è il carisma più grande, ma non perché è il più singolare – non è un’enorme quantità di rinunce e di sacrifici, ma l’amore negli atteggiamenti più feriali e normali: umile, mite, tollerante, fiducioso…Ma la vita è fatta soprattutto di quotidiano, e comunque anche le scelte più alte e difficili maturano proprio nel quotidiano, nel lento, monotono, oscuro giorno per giorno. Il vero cristiano è colui che vive ogni giorno come fosse l’ultimo, come fosse il primo, come fosse l’unico, secondo l’ammonizione di Dante: “Pensa che questo dì mai non raggiorna”.     
+Francesco Lambiasi

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