letterina 20110528

L'affondo 

Solo

Sono rimasto solo.
La chiesa, così grande, lo sembra ancora di più.  
L’apparato del Triduo, così solenne, sembra quasi incutere paura.  
Le candele, così numerose, anche se accese in parte, sembrano ciò che resta di una festa finita troppo in fretta, o mai iniziata veramente.  
E loro? Dove sono?
Non è l’orario giusto? Sta venendo il temporale? Stanno finendo una settimana di lavoro e quindi sono stanchi?
Nessuno…
Mi viene in mente la domanda di Gesù ai suoi amici, quando lui stava male e loro a dormire:”Così non avete saputo vegliare un’ora sola con me?”
Siamo stanchi, Signore, gli occhi si chiudono, non ti capiamo, ci chiedi troppo, stiamo pensando ad altro, ti sentiamo lontano…
Potevano essere le scuse degli apostoli e quante ne potremmo aggiungere noi. “Non avete saputo vegliare un’ora soltanto?”
E io che sono qui, non sono certamente migliore di chi non c’è.
Ho questa opportunità che, certo, va anche scelta perché non è immediatamente facile, ma capisco che tutte quelle scuse sono anche le mie, rincarate magari dal pensare che, se si tratta di far bisboccia ci si sta, ma “perdere tempo” per adorare no.
Sto qui; Signore, per me: ho così bisogno.
Sto qui Signore, per la mia comunità, per i miei fratelli e sorelle nella fede; per chi fa fatica o non ha voglia di fermarsi; per chi ha chiuso con te; per chi vorrebbe essere qui e non può – perché ammalato, lontano, solo, schiacciato da preoccupazioni-; per chi non se la sente di riannodare un filo che si è spezzato...
Stare qui anche per loro. E con loro, perché sto qui con te.
Ah, qualcuno è arrivato.
Grazie Gesù…                        

(preghiera di un prete-parroco nelle giornate eucaristiche)

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letterina 20110521

L'affondo 

Adorare: pupille dilatate

E’ stato montato l’apparato del Triduo, con un’infinità di candele e luci che vogliono far corona al sole dell’Eucarestia. Vivremo le giornate eucaristiche (ex Quarantore) accendendo questi segni ma, soprattutto, accendendo i cuori, perché sarebbe un controsenso far brillare centinaia di candele e lasciar spenta la nostra presenza. Le riflessioni che seguono ci aprono al senso dell’adorazione eucaristica alla quale siamo tutti invitati, ben sapendo che  non è una preghiera immediatamente facile, ma alla quale continuiamo ad invitare nei primi venerdì del mese e in occasioni particolari come questa.
Adorare  è voler ascoltare “Gesù dentro di noi”, significa prendere tempo  per essere silenziosi  e scoprire quanto siamo amati da Dio, nonostante tutto il peso della nostra vita passata, i nostri rifiuti, le nostre angosce, le nostre resistenze. Dio ci ama nonostante le ferite e le fragilità che ci portiamo dentro. La sua presenza è un punto di riferimento per tutte le nostre piaghe, per tutti i nostri disorientamenti. Dio è una certezza che mi fa sentire di essere amato con tutte le mie nullità, con tutto ciò che in me è bello e che io non so più vedere.
Adorare è accettare Dio, che scelga con tutto se stesso di essere presente nella povertà e nelle grandezze del mio essere.
Adorare è intuire il desiderio di Dio verso di me.
Adorare  è scoprire che Dio mi ama così come sono e che non devo essere perfetto per ricevere il suo amore.
Ecco l’antica novità: Dio mi ama così come sono e anch’io ho il diritto e il dovere di amarmi così come sono.
Adorare è fare la scelta di ciò che non appare agli occhi degli uomini, di ciò che non luccica, di ciò che non si può pensare di sostituire con il “vitello d’oro” fatto dalle nostre mani. 
Adorare è  accettare Dio nella sua presenza povera, è scoprire il mistero dell’Incarnazione, perché Lui si è fatto come me, ed è proprio a partire dalla mia povertà che posso toccare Dio, posso sentirlo: sono immenso nella sua presenza. Egli è dentro il mio povero cuore e mi fa sentire che io sono la cosa più importante del suo amore. Solo quando avremo le pupille strette nello sforzo e per l’attesa di saper scorgere il volto di Dio, poi ci rimarranno dilatate, perché al suo apparire avremo fatto il pieno della luce e solo allora potremo parlare di Lui.           

Adorare è...ciò che farai tu...

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letterina 20110514

L'affondo 

Segni dei tempi - segni dei luoghi

Viviamo in un “territorio” che non è  scenario asettico della vita cristiana bensì lo spazio in cui i cristiani ascoltano il mondo – gli uomini e le donne con le loro sofferenze, le speranze e le fatiche; il creato, l’ambiente e la terra... – perseguendo responsabilmente il bene comune insieme agli altri uomini ed esercitando la propria responsabilità. Il territorio è il luogo in cui i cristiani sono innestati nella comune vicenda culturale di un popolo e dove devono ogni giorno discernere i “segni dei tempi”, che spesso si manifestano anche come “segni dei luoghi”. E in questo territorio si vota, cioè si scelgono le persone che danno tempo e passione per farlo più bello e umano.  Proprio per questo è importante dire come la pensiamo, andando a votare, poiché, appartenendo alla città e alla società degli uomini, occorre essere soggetti responsabili. Non ci deve essere alcuna diffidenza o contraddizione rispetto all’appartenenza alla società e alla cittadinanza: si è realmente cristiani, discepoli del Signore Gesù Cristo, se ci si lascia ispirare dal Vangelo e se, attraverso l’istanza mediatrice della  coscienza, si da’ il contributo sotto la forma dell’azione politica la quale resta, come già diceva Pio XI, “il campo della più vasta carità”.
Come ha più volte ricordato anche Benedetto XVI, “la chiesa non è né intende essere un agente politico”, ma spetta ai cristiani un doveroso impegno in ordine all’umanizzazione della convivenza civile e alla realizzazione di una società sempre più segnata da giustizia, rispetto della dignità della persona, pace. Dunque per la chiesa vi è una funzione “mediata” nei confronti della società, soprattutto attraverso la purificazione della ragione e il risveglio di forze morali; per i fedeli laici vi è una funzione “immediata” nel partecipare in prima persona alla vita pubblica senza “abdicare – sono parole dell’enciclica Deus caritas est – alla molteplice e svariata azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere il bene comune”.    

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letterina 20110507

L'affondo 

La beatificazione di papa Wojtyla

La beatificazione di Karol Wojtyla è avvenuta in piazza san Pietro. In piazza. Le ovvie ragioni pratiche  – dare un minimo di spazio alla massa enorme di gente arrivata da tutte le parti del mondo  –  non cacenllano i significati simbolici dell’evento. La piazza è un po’ chiesa: lo spazio nel quale il “mondo” che sta fuori, quello del bailamme cittadino, viene parzialmente filtrato per preparare il fedele a entrare nella chiesa. Per questo un buon sagrato ha sempre un disegno, come a condurre, a portare per mano verso la chiesa. La quale, oltretutto, inizia a presentarsi nella facciata dove spesso alcune immagini che si troveranno dentro si affacciano. Questo è vero di ogni piazza. Ma lo è soprattutto di piazza san Pietro, con il suo specialissimo disegno, la scalinata che porta leggermente verso l’alto, le molte statue che la ornano e gli innumerevoli simbolismi che le vanno dietro, da sempre. Ecco: la beatificazione di Karl Wojtyla è avvenuta lì. Mi pare che il significato più forte che ne vien fuori è questo: la cerimonia è un sacro che tende a diventare profano e viceversa.
È un sacro che tende a diventare profano perché la cerimonia, con il suo carattere altamente ufficiale, è certo una cerimonia della Chiesa ma che tracima fuori della chiesa e diventa anche evento epocale che sigilla un personaggio chiave degli ultimi decenni.
Ma la cerimonia è un evento profano che diventa sacro. Le bandiere, i luoghi di provenienza, i vestiti, i gruppi le stesse autorità civili sono arrivate lì per avere lì – anche senza volerlo – una qualche forma di “consacrazione”, come parte seppure limitata di una cerimonia religiosa e di quella cerimonia religiosa. Con tutti i vantaggi di una coincidenza del genere e con qualche ambiguità, facilmente intuibile peraltro. Ma forse inevitabile, con qualsiasi personaggio storico. E soprattutto con Karol Wojtyla che ha rappresentato sempre l’incrocio irrepetibile fra un personaggio storico unico e un impareggiabile uomo di Chiesa.  

Dal blog: Cristiani e società  

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letterina 20110430

L'affondo 

Donna della ferialità

«Maria viveva sulla terra una vita comune a tutti, piena di sollecitudini familiari e di lavoro».

Intanto, «Maria viveva sulla terra».
Non sulle nuvole. I suoi pensieri non erano campati in aria. I suoi gesti avevano come soggiorno obbligato i perimetri delle cose concrete.
Anche se l'estasi era l'esperienza a cui Dio spesso la chiamava, non si sentiva dispensata dalla fatica di stare con i piedi per terra. Lontana dalle astrattezze dei visionari, come dalle evasioni degli scontenti o dalle fughe degli illusionisti, conservava caparbiamente il domicilio nel terribile quotidiano.
Ma c'è di più: «Viveva una vita comune a tutti».
Simile, cioè, alla vita della vicina di casa. Beveva l'acqua dello stesso pozzo. Pestava il grano nello stesso mortaio. Si sedeva al fresco dello stesso cortile. Anche lei tornava stanca alla sera, dopo aver spigolato nei campi. Anche a lei, un giorno dissero: «Maria, ti stai facendo i capelli bianchi». Si specchiò, allora, alla fontana e provò anche lei la struggente nostalgia di tutte le donne, quando si accorgono che la giovinezza sfiorisce.
Le sorprese, però, non sono finite, perché venire a sapere che la vita di Maria fu «piena di sollecitudini familiari e di lavoro» come la nostra, ci rende questa creatura così inquilina con le fatiche umane, da farci sospettare che la nostra penosa ferialità non debba essere poi così banale come pensiamo.
Sì, anche lei ha avuto i suoi problemi: di salute, di economia, di adattamento. Chi sa quante volte è tornata dal lavatoio col mal di capo, o sovrappensiero perché Giuseppe da più giorni vedeva diradarsi i clienti dalla bottega.
Chi sa a quante porte ha bussato chiedendo qualche giornata di lavoro per il suo Gesù, nella stagione dei frantoi. Chi sa quanti meriggi ha malinconicamente consumato a rivoltare il pastrano già logoro di Giuseppe, e ricavarne un mantello perché suo figlio non sfigurasse tra i compagni di Nazareth. Come tutte le mogli, avrà avuto anche lei momenti di crisi nel rapporto con suo marito, del quale, taciturno com'era, non sempre avrà capito i silenzi. Come tutte le madri, ha spiato pure lei, tra timori e speranze, nelle pieghe tumultuose dell'adolescenza di suo figlio. Come tutte le donne, ha provato pure lei la sofferenza di non sentirsi compresa, neppure dai due amori più grandi che avesse sulla terra. E avrà temuto di deluderli. O di non essere all'altezza del ruolo.
E, dopo aver stemperato nelle lacrime il travaglio di una solitudine immensa, avrà ritrovato finalmente nella preghiera, fatta insieme, il gaudio di una comunione sovrumana... 

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Numeri telefonici dei sacerdoti dell’Unità Pastorale:

Don Lorenzo (Gromlongo) 035 540059 ; 3394581382.

Don Umberto (Barzana) 035 540012; 3397955650.
Don Paolo (Burligo) 035 550081.
Don Giuseppe (Palazzago) 035 550336 ; 3471133405.

 

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letterina 20110423

L'affondo 

La speranza

Ho davanti a me un ritratto di Van Gogh intitolato “Uomo in lutto”. Un vecchio è seduto con la testa tra le mani, in una situazione di estrema sofferenza, anzi di
desolazione. Però, accanto a lui c’è una  fiamma viva:  la speranza che nessuna angoscia riesce a distruggere!
Eppure, la speranza non è una virtù facile. Ma rimane sorgente di vita e di energia umana. Scriveva Charles Péguy: “La speranza è una bambina che cammina
tra due grandi sorelle: la fede e la carità. Tengono la bambina con le loro mani. Sembra che le due sorelle siano quelle che conducono la bambina. Ma uno sguardo più attento ci rivela che è piuttosto la bambina che conduce le sue sorelle
”. La speranza è vita, fecondità, benedizione. La disperazione paralizza, la speranza è forza creativa e attiva. La disperazione rimane imprigionata nel passato, la speranza si apre alla libertà del futuro attraverso il confronto con le sfide del presente.
Da dove viene questa speranza? I discepoli di Emmaus, dopo la disillusione del Venerdì Santo tornano al loro paese. Un’avventura finita male. Sulla strada i due discepoli alternano i salmi della tristezza e della disillusione: “Noi speravamo...”. Con Gesù sulla croce, questo sogno è morto. Eppure, li vediamo alla fine dell’episodio tornare a Gerusalemme con molto entusiasmo per raggiungere gli altri e proclamare loro che tutto non è finito, anzi che tutto comincia. Che cos’è successo in mezzo? In mezzo hanno vissuto un’esperienza sconvolgente: Gesù è vivo. Non è la morte che vince ma la vita. Gesù non è stato vittima della morte, ma ha vinto la morte con la stessa morte, come si esprime la liturgia orientale. Quindi non è la morte che ha l’ultima parola ma la vita. Il Sabato Santo è un giorno vuoto nella liturgia. È il giorno delle grandi attese. E queste attese non sono immaginarie, perché la mattina di Pasqua è vicina. Non possiamo dimenticare che a Gerusalemme c’è una tomba vuota, che rimane il segno tangibile chela vita ha trionfato sulla morte. 
Questa tomba continua a proclamare la priorità della vita sulla morte.

Auguri di Buona... Speranza 
 

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Numeri telefonici dei sacerdoti dell’Unità Pastorale:

Don Lorenzo (Gromlongo) 035 540059 ; 3394581382.

Don Umberto (Barzana) 035 540012; 3397955650.
Don Paolo (Burligo) 035 550081.
Don Giuseppe (Palazzago) 035 550336 ; 3471133405.

 

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